Avere vent’anni: MACHINE HEAD – Through the Ashes of Empires

Ricordo ancora il giorno in cui ricevetti il promo di Through the Ashes of Empires. Il titolo non puzzava di bibita per gli sportivi come Supercharger, e la copertina aveva quel non so che di gotico perfettamente rappresentato dal gotico starter pack, ovvero l’abbinamento di alberi, nebbia e statuetta alata in depressione. Di certo non mi fidavo di Robb Flynn nel 2003, ma aveva ricacciato dentro uno come Phil Demmel: non il Logan Mader rimpianto da tutti, bensì il chitarrista storico dei Vio-Lence. Nello stesso periodo il gruppo tentava in qualsiasi modo di rimuovere dalle nostre stanche memorie l’orrenda estetica del periodo con Ahrue Luster, fra rasta, capelli ossigenati e vestiario da ora di ginnastica alle medie.

Poi Robb Flynn fece la mossa Kansas City, e fu allora che mi fidai davvero di lui. Il primo pezzo di Through the Ashes of Empires era Imperium, ed era una delle migliori cose che avessero mai scritto. Aveva tutti gli ingredienti di una Davidian eccetto Chris Kontos e quella ruvidezza da suono anni Novanta. La produzione per i tempi che correvano era pure buona, un lavoro a quattro mani fra Robb Flynn e Colin Richardson, col primo che avrà rotto il cazzo al secondo per settimane per poter scrivere nei crediti che si trattava di un cinquanta e cinquanta, o qualcosa del genere. Era metal, di quello buono. A sentire Imperium non scimmiottavano più quella roba da classifiche che, nel frattempo, aveva perduto ogni affinità con le medesime, con i Korn alle prese con un album aggressivo, per nulla sorprendente ma tutto sommato buono, e i Limp Bizkit – con Results May Vary – rassegnati a cedere lo scettro ai Linkin Park di Meteora. Il tutto con St. Anger sullo sfondo, simile a un orrendo Inferno dipinto da Dave Patchett, con tante figure a sancire la morte del nu metal e James Hetfield in una tenda che estrae cose dal culo di Lars Ulrich, come in quella scena in silhouette in Austin Powers.

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Imperium era davvero bella, riff dopo riff, a riprova che i Machine Head, quando si mettevano a scrivere il pezzo non lineare ma stratificato, ti facevano fare il cosiddetto salto sulla sedia, inclusa quell’accelerazione spiccatamente melodica, quasi svedese, posta a metà. Se ci penso, e se mi sforzo di scartare classiconi vari dai primi due dischi, è ad oggi la mia canzone preferita dei Machine Head dopo Davidian. Phil Demmel aveva fatto il miracolo?

No, l’album l’avevano scritto gli altri, e lui si era occupato di registrare le chitarre e presentare gli assoli, peraltro ottimamente riusciti, come quello di In the Presence of my Enemies. Il fatto è che scoprii ben presto che tutta la prima metà di Through the Ashes of Empires non suonava per niente come Imperium. Bite the Bullet era solo un buon singoletto, e l’ex San Antonio Slayer e Sacred Reich, Dave McClain, l’apriva con un pattern di batteria tale da rendere Chris Kontos un pelino meno insostituibile che nei ricordi.

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La prestazione di Dave McClain su Through the Ashes of Empires fu forse la sua migliore in carriera. Left Unfinished alternava una velocità da sporco branaccio rock a qualche puttanatina alla Korn e ad un ritornello degno dei due dischi precedenti; Elegy, con un attacco quasi stoner, restituiva un’oscurità sufficiente a dipingere tutto lo scazzo regnante nella summenzionata copertina, forse il momento più anni Novanta fra tutti. Dopo aver sotterrato Imperium a colpi di eterogeneità e malcelata ruffianeria, l’album si riprendeva a fatica i metallari, lentamente, con qualche croccantino d’addomesticamento, fra In the Presence of my Enemies (con un’intro magnetica da parte di McClain e un assolo ottantiano di Demmel che era anche il migliore del disco), Seasons Wither e soprattutto Vim, con quella doppia cassa incastrata in apertura a sotterrare tutto quanto.

Through the Ashes of Empires fu un disco con il piede in due staffe, una sorta d’esperimento sociale. Si sarà detto, Robb Flynn: abbiamo ancora a che spartire qualcosa con il recente mainstream di MTV, ora che la baracca sta affondando? I presupposti al successivo The Blackening, qui appena accennati, mi faranno ricordare l’album quasi esclusivamente per la sua traccia d’apertura, un manifesto di come dovrebbe esser costruita e strutturata la canzone perfetta dei Machine Head. Com’ è andata poi lo sappiamo tutti, e diciamo che il qui recensito album e il più recente Bloodstone & Diamonds risulteranno, in linea di massima, i titoli concepiti per accontentare un po’ gli uni e un po’ gli altri. Per alcuni un sinonimo d’insicurezza; per il sottoscritto, come ho detto poc’anzi, l’esperimento sociale di Robb Flynn per pararsi per l’ennesima volta il culo. (Marco Belardi)

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