When all is said and done: trent’anni di Heartwork

Matteo Cortesi: Per quel che riguarda la mia definizione di metal, Heartwork è il disco che più di ogni altro ha cambiato il mondo in peggio. Il problema non è il disco in quanto tale ma tutta la merda che ha attivato: una vertigine di gruppi e scene esponenzialmente sempre più abominevoli, inerti, prive di cuore e di vita, fino ad arrivare al niente professionaleben prodotto e ben suonato che regna incontrastato da un bel pezzo, un passo alla volta. Come diceva Biagio Antonacci, non è stato subito: il concetto di death metal melodico esisteva già ma l’unica persona ad avere dato un senso preferiva continuare a farsi i cazzi suoi in negozio, per questo il danno provocato dagli Edge of Sanity è inesistente e restano solo dischi belli che pochi o nessuno ricordano. Heartwork, al contrario, da solo ha ammazzato il death metal alla vecchia: talmente orecchiabili le canzoni, tanto aggressiva la colonizzazione delle menti ancora malleabili tramite una campagna stampa martellante come e più che per i Sepultura di Chaos A.D., che da allora lentamente e inesorabilmente “death metal melodico” è diventato il solo modo concepibile di suonare metallo pesante invece dell’ossimoro burlesco e sgradevole che è (più plausibile a quel punto dire ‘sale dissetante’, o ‘letame detergente’, e crederci). Rinuncerei a Heartwork adesso se questo comportasse la sparizione istantanea e retroattiva della carriera di Michael Amott, dell’intero catalogo Nuclear Blast post-Scott Burns, del metalcore, dei gruppi con bella figa ornamentale che tenta malamente di imitare Chris Barnes, in generale di tutti quelli che ancora oggi e per sempre si ostinano a cacciare fuori copie carbone dei Carcass 1993 non riuscendo a capire che un altro Jeff Walker, un altro Bill Steer, non esisteranno mai.

Stefano Mazza: voglio un gran bene ai Carcass, perché furono uno dei gruppi che mi portarono oltre le porte dell’estremo, quando ero ancora giovanissimo ed ero alla ricerca dei limiti sonori del metal. Ricordo bene il giorno in cui, nel solito negozietto di fiducia, sentii Symphonies of Sickness: una cosa incredibile, nella musica, nella grafica e nei testi. Sono uno di quei momenti che non si scordano, anche a distanza di decenni. Diventai fin da subito un grandissimo fan dei Carcass e del loro spettacolare grind-death. Poi, con Necroticism – Descantig the Insalubrious cambiarono in modo significativo il loro stile, mantenendo solo in parte il grind delle origini, con alti livelli di potenza sonora, abbinata a una tecnica strumentale solidissima, oltre all’ingresso di Michael Amott. La nuova evoluzione di Heartwork verso composizioni più lineari, ricche di groove, con un lavoro strumentale ancora più raffinato in parte me l’aspettavo anche nel ’93; le premesse per un disco di questo tipo erano già presenti in Necroticism e i Carcass proseguirono imperterriti sulla strada dell’eleganza, chiamiamola così, ma uccise per sempre quella formidabile follia che li aveva caratterizzati alle origini. Heartwork è un bellissimo disco death metal, solido e tecnico, ma quelli non erano più i Carcass, erano un altro gruppo. Più bravi, più musicisti, senza dubbio più appetibili per un grande pubblico, ma Heartwork non è mai stato troppo nelle mie corde e durante questi vent’anni dalla sua uscita l’ho riascoltato poche volte, quasi sempre mettendo su This Mortal Coil, Arbeit Macht Fleisch e Blind Bleeding the Blind. È giusto che piaccia e che venga tenuto in alta considerazione, lo riconobbi fin da subito e anche adesso penso sia un grande disco, ma io preferisco i suoni cavernosi, le doppie voci beffarde, il caos dei blast beat, l’umorismo macabro e lo splatter. Heartwork è bello, ma Symphonies of Sickness è arte.

carcass

Griffar: Questo è il disco che per me rappresenta la pietra tombale sulla carriera di una delle band che più ho adorato in gioventù. Penso sia normale, per uno che l’ascesa dei Carcass l’ha vissuta in diretta a partire da Reek of Putrefaction in poi, un disco che ha lanciato un intero sottogenere con migliaia di gruppi affiliati. Gli stessi geni che hanno cambiato la storia della musica (legati a doppia mandata ai Napalm Death, altri miei eroi poi decaduti) con dischi biblici come Symphonies of Sickness e Necroticism/Descanting the Insalubrious ora stravolgevano il loro suono, diventando lenti, collosi, bradipeschi. Non basta la voce sempre maligna ed unica di Jeff che canta liriche stracolme di giochi di parole e doppi sensi, nemmeno sono sufficienti gli assoli di Michael Amott a rendere dinamico un disco che per me non finisce mai tanto è statico e pesante. Per me è impossibile non paragonarlo ai loro dischi precedenti, come canzoni si salvano per il rotto della cuffia solo Heartwork e Death Certificate, il resto sarà anche il manifesto del death’n’ roll e tutte queste menate ma non c’è un solo brano che regga il confronto con i capolavori storici. Trent’anni fa un gruppo che io ancora adoro per tutto quanto fatto prima di Heartwork rinnegava la sua storia in nome di non-ho-mai-capito-cosa. Andando incontro al tracollo, visto l’inutile Swansong di tre anni dopo con successivo scioglimento. I Carcass post-reunion, poi, sono solo una copia sbiadita di uno dei gruppi più strabilianti di sempre (fino al 1991).

Michele Romani: Heartwork è stato il primo disco che ho ascoltato dei Carcass e anche il mio primo disco death metal in assoluto, quindi di conseguenza anche la prima volta che ho sentito cantare qualcuno in growl/screaming (ai gruppi floridiani e al black norvegese ancora non ero arrivato). Quindi inutile che vi spieghi l’impatto pazzesco che ebbe su di me, visto che ai tempi dei miei 15 anni mi sembrava veramente una delle cose più estreme sulla faccia della terra. Poi chiaro che andando a ritroso coi vecchi dischi e ampliando la mia conoscenza del metal estremo le cose sono cambiate, ma se per esempio a Chaos AD col tempo ho finito per preferire Beneath the Remains ed Arise, Heartwork ancora oggi è il mio preferito dei Carcass. Vi risparmio il pippone sullo stile chitarristico di Amott che ha contribuito a far nascere tutto il death melodico svedese e i discorsi sul fatto che questo sia un disco commerciale, il black album dei Carcass e stronzate varie. Heartwork è semplicemente un disco magnifico suonato da una band al culmine della sua piena maturità artistica in cui praticamente non c’è un pezzo brutto, anche se vi confesso di non essere mai stato un amante di No Love Lost. Per il resto inutile elencarvi uno dei migliori attacchi di sempre da quando esiste il metal (Buried Dreams), il massacro chirurgico di Carnal Forge, la pazzesca title track o quello che combina Ken Owen in Arbeit Macht Fleisch, batterista con uno stile tutto suo senza il quale sono convinto che questo disco non avrebbe avuto lo stesso successo e che continuo a ritenere sia stata una perdita enorme per la band, alla luce anche di quanto fatto dopo.

Cesare Carrozzi: In realtà Heartwork lo ascoltai in differita di qualche anno rispetto all’uscita. Questo perché a) non c’erano negozi che ne avessero disponibilità in questo paesone che è la citta dove risiedo e b) nessuno che conoscevo ascoltava death metal. Sicché quello che succedeva è che di solito rimanevo sveglio aspettando Headbanger’s Ball sull’ormai defunta Mtv e lì, oltre ad altro, ci trovavo spesso proprio il video di Heartwork, che non serve dirvelo ma mi piaceva tantissimo. “L’altro” erano anche i Morbid Angel, epoca Covenant, e amici cari per me non c’era proprio storia: gli invidiosi diranno (photoshop) che i Carcass con Heartwork sono diventati ‘commerciali’, ma rispetto ai Morbid Angel li preferivo di gran lunga, non fosse altro proprio per le aperture melodiche, che ai Morbid Angel mancavano quasi del tutto. Oltre a quelle, metteteci pure una produzione nettamente migliore (Colin Richardson non si batte), il fatto che Trey Azagthoth suonasse gli assoli alla cazzo di cane mentre il duo Bill Steer/Michael Amott era enormemente più raffinato, e insomma Heartwork mi fece innamorare dei Carcass e Covenant mi tenne lontano dai Morbid Angel, cosa che dura tutt’ora, perché la cattiveria senza nessun contraltare dopo poco inevitabilmente mi viene a noia, e per me è lì il discrimine tra i Carcass e gli altri. Tant’è.

Marco Belardi: Buried Dreams per conto mio alla batteria elettronica, No Love Lost e Heartwork con due differenti gruppi con i quali ho suonato in passato. Certe volte ricollego quanto sono affezionato a un disco dal numero dei brani che ho insistito per risuonare in sala prove. Il capolavoro dei Carcass è contemporaneamente l’origine di tutti i mali e la loro forma perfetta, l’eccellenza. Sebbene incarni ogni ingrediente di Necroticism fuorché la sua vitale sporcizia, e sebbene incarni ogni ingrediente del metal che verrà – l’amato o odiato, s’intende – Heartwork è perfetto per il connubio impareggiabile fra lungimiranti composizioni fino a quel momento mai ammirate e un modo di suonare, arrangiare e produrre totalmente anni Novanta. Un Colin Richardson alla consolle e una Earache in stato di grazia (per non voler scomodare H.R. Giger) sono fondamentalmente quel che manca – oltre al talento innato, alla line-up perfetta, al binomio di chitarristi così diversi e maledettamente complementari – alla scena e alla gentaglia di oggi che incide i dischi in cameretta, davanti a una tazza di té. Arbeit Macht Fleisch la mia preferita su tutte, Carnal Forge e Blind Bleeding the Blind l’apoteosi dello scapoccio. Heartwork la sublimazione delle puntate di MTV Superock e del finale di Headbangers’ Ball. Altri tempi, altra mentalità, ci sono arrivato con qualche annetto di ritardo e se solo meditassi di puntare il dito contro un titolo del genere sarei un cane.

15 commenti

  • Avatar di nekro76

    Per me è un’opera imprescindibile, da mettere sullo stesso piano di uno Slaughter of the soul o di un Symbolic.

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  • Avatar di Fabio Rossi

    I Carcass hanno fatto,prima dello scioglimento, dischi differenti tra loro.E questo il dovere di un musicista: suonare quello che vuole, infischiandosene di quello che pensano i fans.Poi ci sono sempre i dischi che fanno discutere come ad esempio capito’ a Somewhere in the time(a causa delle tastiere).Il primo disco dei Carcass ,bello quanto vi pare, difettava di una produzione deficitaria anche per il grindcore.

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  • Avatar di TonyLG

    A me piace persino Swansongs, fate voi! Heartwork è un caposaldo. Poi, per carità, sono gusti, ma io il death l’ho sempre preferito contaminato.

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  • Avatar di Bonzo79

    Però si son mossi in sei a parlarne (spiace di non leggere Barg e Ciccio). Giusto per capire la portata del disco, anzi della band. Che gruppo, mamma mia.

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    • Avatar di Ciccio Russo

      Io in realtà non avrei avuto granché da dire. A titolo personale, Heartwork non fu per me un disco di formazione, come non lo fu Necroticism. Gli album dei Carcass a cui sono più legato sono i primi due e Swansong. Oggi mi capita più spesso di mettere su Surgical Steel di Heartwork.

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      • Avatar di Bonzo79

        grazie. ti dirò che anche per la mia esperienza personale è stato molto più formativo Swansong. cmq… manca il tag gruppi migliori del mondo 😉

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  • Avatar di Orgio

    Matteo Cortesi sempre definitivo. Peraltro, il suo discorso si potrebbe applicare anche a “Cowboys From Hell” e “Vulgar Display Of Power”. Ma non si può fare una colpa agli innovatori delle degenerazioni dei seguaci, e quindi viva “Heartwork”. E che artwork!

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  • Avatar di Fanta

    Come posso parlare male di uno dei miei dischi di formazione? Comprato il giorno dell’uscita. Venivo già da qualche anno di estremismo, conoscevo e possedevo Necroticism.
    Heartwork è un album con un raro senso dell’equilibrio e dell’ambiguità, perché tiene insieme dinamiche musicali antinomiche. Prima di allora nessuno le aveva conciliate con una simile efficacia. Verissimo il riferimento agli Edge of sanity di Matteo Cortesi. Basti pensare che The Spectral Sorrow è coevo del disco in oggetto e che Unorthodox già proponeva soluzioni sperimentali e atipiche nel death metal. Ma appunto: fino ad allora chi li conosceva? Sono diventati influenti dopo che si sono sciolti.
    Mi trovo con quel che scrive Orgio, però. Non è che possiamo colpevolizzare Nietzsche se è stato interpretato in modo estremo, riduttivo e distorto dagli epigoni del nazionalsocialismo, per esempio.
    Discorso simile per gli At the Gates.
    In linea di massima ogni conformismo (se vogliamo sostenere che Carcass, At the Gates e Pantera ne sono stati inconsapevoli promotori) produce anche spinte culturali opposte. Il revival attuale non è ancora anti-conformismo, ovvio. Ma chissà…qualcosa secondo me si muove e bolle nel magma dell’underground.

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  • Avatar di nxero

    Non credevo che nel 2023 ci fosse la possibilità di dubitare di dischi come questo o di Chaos A.D.. Le osservazioni le capisco anche ma le scanso subito. Oggi siamo alla deriva totale di idee, di attitudine e di contenuti e riusciamo a fare le pulci a due dischi come questi? No, grazie. Ci ha già pensato Amott a sputtanarsi completamente mandando a puttane tutto quello che ha toccato dal terzo disco degli Spiritual Beggars in poi: lui è il simbolo stesso del decadimento nel metal odierno. MA PRIMA CI SONO STATI CARNAGE (1 disco), CARCASS (2 dischi), SPIRITUAL BEGGARS (3 dischi) e ARCH ENEMY (2 dischi) e un bel pezzo di storia del metal. Direi che è il caso di gioire di questo e non di piangersi addosso sul resto.

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  • Avatar di Bacc0

    Su questo blog ho letto recensioni superlative di roba brutta, suonata male, prodotta in maniera risibile e totalmente derivativa e poi fate le pulci ad Heartwork? Per carità, ognuno è libero di avere la propria opinione però, a volte, bisognerebbe sforzarsi di essere un tantino obbiettivi.

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  • Avatar di VIDLON

    Bello, Bravi, bellissimo articolo, ci voleva. Avete centrato il succo del discorso. Molto sentita questa dichiarazione d’amore per qualcosa che non è più, non è più stato, non sarà mai. Aggiungo solo che visti live quest’estate, hanno distrutto tutto. Sono compattissimi e distruggono tutto proprio perché sono precisi, tecnici, e sentono ancora quello che hanno composto e lo amano. Bill Steer è il guitar hero di tutti: ha co-inventato il grind, ha ridefinito il metal aggressivo/progressivo, ha puntato tutto su un suo suono, un suo sound, che non è solo l’ampli ma come schiaccia le corde, e vederlo dal vivo a un metro di distanza con i Firebird mi ha fatto capire come suona splendidamente caldo e bluesy. Ha spostato il gusto di ognuno degli ascoltatore in fatto di “estremo” e “melodico”. Ha co-reinterpretato meglio di moltissimi il revival ’70. Ora se la ride dal palco, tecnicissimo ma mai sbrodolone, death metaller realizzato pienamente, consapevole, con niente da dimostrare. NO LOVE LOST

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  • Avatar di Hieiolo

    Criticare questo disco perchè è stato ” l’inizio della fine” e’ come prendersela con la merda se le scimmie te la tirano dietro o con le pistole se qualcuno ti spara, non ha senso… Disco fantastico, dalla produzione alla composizione alle prove dei singoli musicisti. Incredibile che un solo disco abbia definito un genere cosi’ repentinamente, ma non è certo colpa di heartwork se dopo abbiamo sopportato alcuni obbrobri di chi non ha mai avuto un centesimo dell’ispirazione che troviamo in questi pezzi. I carcass fino a Swansong ( per me INCLUSO) hanno sempre alzato l’asticella del genere musicale che incidevano, che fosse grind, death, death melodico o death ‘n’ roll. Immensi

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  • Avatar di Peril

    Discone, anche se Necroticism è più bello.
    L’analisi di m.c. è interessante e condivisibile, quindi il primo che ha una macchina del tempo a portata di mano torna indietro e fa fuori Amott.

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  • Avatar di Fanta

    https://youtu.be/P9jESpv55ik?si=-8ecpEiygrTqOMlw

    In un mondo che un tempo pareva rappresentarci, questo disco avrebbe venduto milioni di copie. Un tempo non troppo lontano. Solo qualche lustro più indietro. E no, nessuno inventava nulla manco allora. Manco per il cazzo. Da una parte il death metal contaminato con i Maiden. Limitrofo a quello mescolato con il doom. Dall’altra parte, più a nord, quelli che avevano invertito l’equilibrio sul manico. Più lenta la mano sinistra, frenetica la destra nell’alternare pennate da tendinite cronica. Foto di Quorthon sul comodino e nichilismo a palate.
    Al centro una serie di cose reattive al divertimento. Rassegnazione e realtà, senza filtri da spensieratezza ottantiana. E no, manco qua si inventava un cazzo.
    Solamente: si cercava ovunque, a qualunque latitudine del proprio modus operandi, di andare ancora oltre (anche in Grecia e perché no, a Torino per esempio). Laddove “ancora” e “oltre” significavano trovare un proprio stile, riconoscendo il debito verso i padri putativi.

    Questo disco riconosce quel debito, lo ostenta e al contempo lo riformula. Gli Appalooza sono riconoscibili pure quando citano Queens of the Stone Age e Killing Joke. Nirvana e Alice in Chains. Otto brani e otto singoli da classifica. Pure se le classifiche non si misurano più con i dischi venduti. Le classifiche non esistono più e quelle così intitolate sono false.

    Tornado in tema. Qui c’è del feticismo del riff al servizio del groove. Roba da rompersi il collo prima di un viraggio memorabile su un bridge o un ritornello che non ti esce più dalla testa.
    Tutto praticamente perfetto. Pure quel cazzo di tocco tribale che altrove ti farebbe venire un’orticaria, qui funziona.

    Posto qui sta roba, l’articolo è letto parecchio perché i Carcass spaccano e voglio promuovere gli Appalooza. Lo meritano.
    Ovviamente non se li cagherà nessuno.

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