Avere vent’anni: NEVERMORE – Enemies of Reality

Lorenzo Centini: Difficile essere obiettivi coi Nevermore, sia per un detrattore sia, come nel mio caso, per chi un pezzo di anima glielo deve, ai quattro di Seattle. In fondo l’oggettività fa schifo, come categoria, e preferisco uno che dà della “gallina strozzata” a Warrel Dane perché non ne sopporta la voce piuttosto che uno che comincia un discorso con “oggettivamente”. Io però ai Nevermore devo un casino. Non posso dirli gruppo di ingresso (ero già abbastanza traviato prima di Believe in Nothing), ma sicuro gruppo di consolidamento. E di appartenenza. Così ho sofferto in passato per i maltrattamenti usciti da queste colonne (Metal Skunk è un media terribile, veicolo di oscurantismo, revanscismo, interismo, isterismo ed altre cose abiette). Stavolta si parlava di una multipla con anche il Belardi e l’Azzeccagarbugli in squadra, altre due persone perbene, due estimatori, e allora in tre dovremmo avere le spalle larghe per opporci al fango lanciato dagli scranni dei Senatori. Una sfida tutta interna, una congiuntura fortuita, perché poi forse non è Enemies of Reality il disco per cui fare barricate parlamentari e ritirarsi sull’Aventino, se sconfitti.

Primo disco della fase finale della carriera dei Nevermore, quella del mestiere, dopo che con Dead Heart in a Dead World avevano trovato la formula perfetta. Dopo aver cambiato pelle per tre dischi, spesso anche all’interno dello stesso disco. DHIADW aveva perfezionato tutto il discorso, reso fluido e fruibile quello che prima era aspro, limato il limabile, potenza invidiabile, scrittura encomiabile. Enemies of Reality ne segue la scia, in falsariga. Bello, a tratti anche molto, ma complessivamente non al livello dei tre precedenti. Pezzoni ce ne sono: I, Voyager, Tomorrow Turned into Yesterday (buona ballad con un post-ritornello, o quel che è, davvero emozionante), l’apertura clamorosa con la stessa Enemies of Reality (clamorosa, ripeto). Poi alcuni riempitivi, dignitosissimi comunque. Le caratteristiche per cui amo i Nevermore complessivamente ci sono ancora. Suonare metal classico il più pesante che si riesce, senza scavalcare il limite dell’estremo (insomma, la lezione di Painkiller). Le canzoni alla base di tutto, e le melodie (piacciano o meno). Il non allinearsi a nessun trend facile. Essere persino orecchiabili, ma suonare sempre personali (poi oh, son gusti). Su Loomis non credo che ci siano voci a sfavore. Si parlava oggi in redazione di rimpianti per i concerti persi e mai recuperabili. Ne ho diversi. Tra questi quello di essermi allontanato dal metallo nel periodo in cui avevo le ultimissime occasioni di vedere i Nevermore dal vivo. In quegli anni ho visto complessini del cazzo in ciabatte e barbine e non ho visto loro. Se vi siete allontanati dal Metallo, redimetevi immediatamente.

Marco Belardi: Sebbene rappresenti l’inizio del declino dei Nevermore, Enemies of Reality è uno dei loro album che ho ascoltato un maggior numero di volte. Era loro diritto transitare per l’oscurità di Dreaming Neon Black e la modernità dell’album seguente, e infatti ne trassero due dei migliori titoli dell’intera carriera. Ma io i Nevermore li volevo così: pesanti, cervellotici e all’occorrenza veloci. Il disco del 2003 in un certo senso sputtanò Dead Heart in a Dead World, il loro più conosciuto in assoluto. Suonava di merda e si parlò soprattutto di quell’aspetto tecnico, la produzione affidata all’ex Queensryche e collaboratore di lungo corso di Geoff Tate, Kelly Gray, qui sostituto di Andy Sneap. Fece un pastrocchio, un gran rimpasto in cui non si capiva niente. Io, però, sono così affezionato agli album così come vengo a conoscerli che rifiutai in tutto e per tutto il remaster firmato Sneap uscito, ahimé, un paio d’anni più tardi.

Enemies of Reality la recente varietà e modernità dei Nevermore se la portava ancora appresso, pur tenendo in vetrina la cazzimma esagitata di Seed Awakening – il loro brano più pesante insieme alla futura Born – e Ambivalent oltre alla formula vincente delle ballatone, da Tomorrow Turned into Yesterday alla mielosa Who Decides, con una strofa bellissima e un ritornello non altrettanto centrato. La mia preferita era I, Voyager, con la doppia cassa, ora a diritto come un treno, una spezzata, in primissimo piano, seguita da un brano minore non sufficientemente tributato, Create the Infinite. Never Purify e il riempitivo Nuomenon le ho sempre trovate di troppo. Certamente inferiore ai tre che lo precedettero, inutile il paragone con la perfezione raggiunta in The Politics of Ecstasy, Enemies of Reality fu l’emblema di una band pronta a implodere di lì a poco e fu anche il loro ultimo grande disco. Anche perché, e qui lo confesso, il perfetto This Godless Endeavor del 2005, Born a parte e poco altro, lo considero una sorta di summa a zero rischi della loro onorata e pur breve carriera. Ma non l’ho mai amato, a differenza di questo imperfetto – ma sentito – tentativo di camminare su almeno un paio di binari. Dimenticavo, Travis Smith in copertina e nel libretto interno mise bachi un po’ dappertutto: ci tenevo a dirlo.

Cesare Carrozzi: Sarebbe un ottimo album se non avesse Warrel Dane alla voce. Certo, per la stragrande maggioranza di chi legge il bello di Enemies of Reality (e dei Nevermore più in generale) è proprio quello. Oh, che devo dirvi: c’è chi apprezza pure William Gibson o Greg Egan. Bella per voi, ma il mio personalissimo parere è che sarebbe stato meglio farci cantare sopra il cane del vicino (a cui, se dessero modo, sono convinto che scriverebbe anche meglio di Gibson o Egan, peraltro).

L’Azzeccagarbugli: Enemies of Reality è sempre stato visto come il primo passo falso dei Nevermore e l’inizio di un’inesorabile parabola discendente. In parte a giusta ragione: la produzione era un cacofonico pasticcio (e la riedizione plasticosa uscita qualche anno dopo resta un mezzo passo falso), per la prima volta emergeva una forte dose di mestiere e due/tre pezzi (su un totale di nove) erano davvero inconsistenti. Nonostante ciò, non si può parlare di un disco non riuscito in assoluto, e si tratta dell’album che contiene una delle migliori prove di Warrel Dane. Nonostante non regga il confronto con il suo predecessore, stiamo comunque parlando di un disco che contiene brani come l’omonima, tra le migliori in assoluto dei Nevermore, Ambivalent, il buon lento Tomorrow Turns into Yesterday e la bellissima I, Voyager, un altro brano a dir poco straordinario. Il resto, pur riservando alcuni momenti degni di nota, non riesce mai del tutto a convincere.

Detto questo, resto comunque legato a Enemies of Reality. Da un lato strettamente musicale, perché mi piacciono tantissimo gli assoli di Jeff Loomis sul disco e perché è in questo tour che li ho visti dal vivo l’ultima volta, al Wacken del 2004, con Dane che iniziava già a dare più di qualche segnale di cedimento, ma che regalò una The Heart Collector da brividi. Sotto un profilo personale lo ricollego a quel periodo tra il 2003 e il 2006 in cui le webzine spopolavano, in casa arrivavano vagonate di promo, andavamo a decine di concerti ogni anno, Roma era al centro della scena concertistica internazionale e avevamo un mare di locali per concerti che, ancora, costavano il giusto. E, se devo essere sincero, sono legato a questo disco assolutamente imperfetto perché è stata l’ultima volta che ho amato davvero i Nevermore e perché, come da titolo di questa rubrica, ero io ad “avere vent’anni”.

6 commenti

  • Avatar di Carolina84

    Un gruppo che è stata una grande occasione perduta. Quell’album precedente a questo poteva lanciarli in orbita, era fantastico e mancava solo quel piccolo salto di qualità per farli diventare uno dei gruppi metal moderni di riferimento. Ma, colpa sicuramente anche di una Century Media che, come la band stessa disse, ridusse loro il budget ne uscì questo e da lì non si sono più ripresi.
    Peccato.

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    • Avatar di Fanta

      Non lo so, Carolì. Vedo che si continuano a leggere i dischi di allora con categorie sincroniche. Come se fossimo ancora lì, nel 2003. E invece il tempo passa, gli occhiali con cui filtriamo la realtà dovrebbero adeguarsi alle diottrie attuali.
      L’eredità dei Nevermore oggi è molto più pesante di quel che si pensi. I Witherfall per esempio devono tanto, ma tanto, a Loomis e compagni.
      E non solo loro.
      O da un altro punto di vista: molti tra i ragazzini di oggi li conoscono, eccome.
      Hai ragione sul fatto che avrebbero potuto raccogliere di più nel momento in cui erano all’apice. Ma vale pure per i Type o Negative, per dire.
      Per concludere: puoi vendere 4 milioni di copie in tre mesi e non contare più un cazzo in termini di eredità culturale. O al contrario: puoi continuare a incidere nel presente come una cazzo di goccia cinese.
      Cosa è meglio?

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  • Avatar di Valerio

    Piccola nota a margine: dal vivo, all’epoca, erano una macchina da guerra, escluso Dane che spesso appariva affaticato (era il periodo in cui gli imposero di smettete col fumo e di perdere peso, se non ricordi male). Con ciò, giornali e webzine di intenditori (compresi alcuni che allora si battevano lancia in resta per il metallo pensante e che oggi promuovono solo musica soul) li mas-sa-cra-ro-no senza pietà, accelerando, a parer mio, il collasso dopo il più che buono This GodlessEndeavor.

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  • Avatar di Bartolo da Sassoferrato

    Alcune considerazioni:
    1. NESSUNO faceva musica come i Nevermore. Non allora, non adesso: stile riconoscibilissimo, suoni “targati” Nevermore, interpretazione di Warrell Dane fuori dagli schemi. Tutti segni di grande personalità.
    2. Al netto di vere e proprie gemme della musica estrema (Dreaming Neon Black e DHIADW), questo Enemies of Reality fu, anche a mio parere, inferiore. Mi sento di dire che se un’altra band avesse fatto un disco così, più di qualcuno l’avrebbe considerato il disco della carriera di quella band. Con i Nevermore gli standard sono sempre stati piuttosto alti, sin da The Politics of Extasy.
    3. A conti fatti, personalmente non ho MAI capito come da questo disco si parli di “declino” dei Nevermore: due anni dopo fecero This Godless Endeavor che secondo me è un disco con un tiro allucinante, uno dei loro migliori: grandi pezzi, grandi interpretazioni, SICURAMENTE meglio riuscito di EoR.

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  • Avatar di Hieiolo

    Mah, non ho mai sopportato la voce lamentosa di Dane ( RIP ) e devo dire peccato, perchè come batterista Van Williams era strepitoso, e i riff di Loomis secondo me erano sprecatissimi ogni volta che partiva la solita nenia teatrale del povero Warrell…

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  • Avatar di Andrew Lisi

    Band che ho scoperto con quest’album, ma che col seguente mi scioccò proprio. Pesanti, epici, malinconici come nessun altro.

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