Surfisti che scapocciano: DRAIN – Living Proof

Santa Cruz è situata nella porzione settentrionale della Baia di Monterrey. La località è fra le più celebri al mondo nell’ambiente dei surfisti. Poco più a nord si stagliano i tentacoli della Bay Area di San Francisco, ecosistema noto ai metallari.

Non starò a elencare i principali luoghi di Santa Cruz che valga la pena visitare; guardandovi in giro potreste però incontrare alcuni soggetti che, almeno sulle prime, vi parranno i consueti maschi americani anni Novanta, il cui starter pack consta di skateboard, pantaloncino e maglietta chiara, eventuale cappellino e muricciolo su cui sedersi. Gente che la sera si sposta sulla decappottabile paterna per far incetta di donne, musica, intrugli e vomito ai più rovinosi party nella villa del solito babbo che è fuori per lavoro. Gente che per nessuna ragione al mondo accosteremmo al mondo dell’heavy metal, neppure a quello più periferico. I Drain ostentano un aspetto agli antipodi del metallaro; non lo sembrano, ma lo sono più di tanti fra coloro che ce l’hanno stampato in fronte.

L’istinto non me li fa accostare nemmeno ai ranghi del metalcore, perché qualcosa mi dice che i Drain sono dei thrasher puristi sotto mentite spoglie. Non fatevi fregare dal mosh conclusivo di Run Your Luck o dal groove che apre FTS (KYS), la cui sigla sta per Find the Strenght and Kill Yourself. Il nuovo dei Drain, Living Proof, ha una fortissima matrice thrash metal anni Novanta. Il cantante, sovente in debito con Phil Anselmo, sputa veleno per venticinque minuti di grandi riff e grande musica.

L’album è come suddiviso in due frazioni. La prima molto canonica, in cui si recupera quel thrash metal ritmato che avevamo già sentito in California Cursed, che dalla sua sprigionava a livello sonoro un goccio d’energia in più. Poi a metà si svolta.

In Intermission c’è un tale che si chiama Shakewell e che deduco sia un rapper. Lo vado a cercare: è un bianco gigantesco con indosso una tuta alla Jonathan Davis. Non approfondirò oltre perché la sola visione di due o tre sue immagini mi inquieta come quella volta che al supermercato sentii un pezzo di Oliver Tree, aprii Shazam e andai a cercarmi la faccia improponibile di quell’essere colorato. Il pezzo ricorda certi esperimenti d’inizio anni Novanta, leggasi Public Enemy in mezzo agli Anthrax. L’inserimento di certe tastiere cupe in principio mi ha fatto venir in mente la trap e tutti quei soggetti coi cerotti disegnati in fronte, ma ribadisco: non mi metterò ad approfondire adesso, alle ventuno in punto, dopo cenato, chi sia e cosa faccia codesto Shakewell. Good Good Things è l’altra grossa novità del “lato B” di Living Proof, un hardcore melodico arrangiato dall’omonimo classico dei Descendents del 1985. L’album era I Don’t Want to Grow Up e anche loro erano californiani.

I due pezzi summenzionati spezzano il tono del disco concedendogli, e concedendo a noi, una razione supplementare d’ossigeno in mezzo a tutti quegli intercalari alla Slayer. Oserei dire che Living Proof gira al meglio anche per merito di quelle due voci fuori dal coro, e che la velocità, essendo così ridotta al lumicino, risalta al meglio nei pochi momenti in cui le è permesso di esplodere. Nel frattempo l’album giunge al termine e l’algoritmo per insane ragioni mi fa partire Billie Eilish.

È il 2023 e, Billie Eilish a parte, sto appurando quanto il metalcore stia sparando alcuni colpi importanti. I Drain sono certamente una delle migliori realtà del panorama attuale, e li consiglio a coloro che in generale apprezzano il thrash metal lento e roccioso di trent’anni fa. Ne rimarrete travolti: fra attitudine, carisma, songwriting e produzione non c’è niente di così fuori posto da doverne scrivere una sola riga. Godetevi Living Proof e già che ci siete date un rapido ripasso al precedente, che è un lavoretto da cinquanta minuti scarsi; dopo lo stesso tempo, coi Pain of Salvation se vi va bene siete al punto in cui cominciate a capire di che cazzo parla il concept. (Marco Belardi)

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