Avere vent’anni: marzo 1997

IMMORTAL – Blizzard Beasts

Giuliano D’Amico: Quando uscì Blizzard Beasts, uno dei primi CD black metal che comprai in originale, non ci capii niente. Col giusto risentimento del cliente deluso, provai a farmelo piacere in tutti i modi, ma invano. Dopo l’ascolto di ieri, probabilmente il primo da vent’anni a questa parte, non riesco a dire di averci capito molto di più. BB univa il sound frigorifero di Battles in the North con… boh? Death metal? Morbid Angel? Semplicemente una produzione penosa? Non sapevo allora e non saprei a tutt’oggi. Poche idee e ben confuse, e il solito approccio dozzinale all’esecuzione, in cui la batteria va da una parte, la chitarra da un’altra e il basso chi l’ha visto – l’importante è cominciare e finire tutti insieme e non alla spicciolata, come al Giro d’Italia. Forse questo è, col senno di poi, il valore storico principale di BD: essere l’ultimo di una generazione di album black metal concepiti, realizzati e suonati in maniera raffazzonata e felici di esserlo. Pensateci: dopo BD arrivano At the Heart of Winter, Ravishing Grimness, Rebel Extravaganza, IX Equilibrium, Blodhemn, Wolf’s Lair Abyss eccetera eccetera: tutta roba più o meno leccata e pensata in modo totalmente opposto agli album di soli 2-3 anni prima. Un altro mondo. Per questo BD resta una delle ultime testimonianze di un’epoca che non si è mai più ripetuta, e come tale può essere apprezzato a vent’anni di distanza.

IRON SAVIOR – st

Cesare Carrozzi: Penso uno dei dischi di sempre per quanto concerne il power metal, crucco nello specifico. Lo sconosciuto (ai più) Piet Sielck, il molto più arcinoto e suo vecchio sodale Kai Hansen e l’allora in formissima Thomen Stauch insieme per un lavorone allucinante con dietro un plot fantascientifico piuttosto dimenticabile ma anche chissenefrega che è tutto bellissimo: i pezzi sono fighi ed hanno un gran tiro, con la piacevolissima voce di Piet Sielck  il quale, considerato che poi alla fine della fiera si è inventato tutto lui da solo, si è rivelato anche un inaspettato, ottimo compositore. Gli Iron Savior spiccheranno definitivamente il volo con il successivo Unification, altro discone, ma questo qui è fresco adesso come vent’anni fa. Se vi piace il genere ripescatelo prima di subito.

Trainspotting: Piet Sielck era un Carneade senza meritarlo: presente nella primissima formazione degli Helloween, nonché produttore di valore, fino al 1997 era rimasto nell’ombra, il suo nome essendo conosciuto giusto agli addetti ai lavori. Un giorno però decide di buttarsi nella composizione e fonda la all-star band DEFINITIVA del power metal, chiamando il suo amicone Kai Hansen alla chitarra (e occasionalmente alla voce) e nientemeno che il mitologico Thomen THE OMEN Stauch alla batteria. Il debutto è da subito diventato un punto di riferimento per un certo tipo di approccio al metallo tetesco. Lontanissimo dalle frociate che iniziavano a diffondersi, per esso bisognerebbe usare quei termini tanto cari ai recensori seri tipo roccioso o granitico, con la voce al vetriolo di Sielck e la batteria tellurica di Thomen; questo perché gli Iron Savior sono il più acceptiano dei gruppi power teteschi, e ironicamente a discostarsi di più dal riferimento helloweeniano è proprio il gruppo di uno dei fondatori degli stessi. A questo punto avevo scritto a proposito della freschezza inalterata a distanza di vent’anni di quest’album, ma leggendo la bozza di Carrozzi mi sono accorto che ha espresso lo stesso concetto, usando lo stesso termine, a riprova di quanta ragione ci sia in ciò. Consiglio di riscoprirlo, perché gli Iron Savior non hanno mai raccolto quanto meritassero.

ULVER – Nattens Madrigal

Giuliano D’Amico: Come si ricorderà chi c’era, all’uscita di Nattens madrigal si vociferava che l’album fosse stato registrato in un bosco. Ovviamente erano balle messe in giro dalla casa discografica, fomentate dalla produzione piuttosto lo-fi, ma chi nel black metal ci credeva davvero, come il sottoscritto, non lo accettava. NM era stato registrato nella foresta, con tutta la evilness che ne conseguiva. Poi uno cresce e scopre che Babbo Natale non esiste, e a vent’anni di distanza mi colpisce un po’ lo status mitico che NM ha conservato nella discografia degli Ulver; status che forse va a riempire quello è il capitolo più debole della trilogia dei primi Ulver. Intendiamoci: si rimane a livelli altissimi e impensabili per qualsiasi band di oggi; ad ascoltare bene la versione rimasterizzata, però, si nota che i riff, pur ben concepiti, sono in fondo simili a quelli di tanti altri gruppi. L’ispirazione di Bergtatt era altra cosa, e mi chiedo se NM non vada oggi recuperato più per i testi – che, come spiega Garm in questa intervista, hanno più a che fare col senso del tragico che con truciderie varie – che per la musica. Resta il fatto che dopo NM gli Ulver son diventati quel che son diventati, e che quindi – vedi il discorso su Blizzard BeastsNM abbia anche un certo valore storico. Io non sono tra quelli che hanno smesso di amare gli Ulver dopo NM, ma mi sono sempre chiesto che motivo ci fosse per fare quel tipo di musica quando tanti altri lo facevano già e pure meglio. NM ci ricorda, vent’anni dopo, che gli Ulver erano anche altro, e che quello sì, quello davvero era unico, che fosse stato registrato nella foresta o meno.

SILVERCHAIR – Freakshow

Trainspotting: Da ragazzino mi piaceva il grunge, un casino. Ci sono praticamente cresciuto, è stato il mio primo vero approccio strutturato alla musica seria. I Silverchair, all’epoca adolescenti, erano fatti apposta per quelli come me: riprendevano tutti gli stereotipi del grunge in chiave semplificata e punkettona, strizzando l’occhio sia ai capelloni con il camicione di flanella che ostentavano depressione d’ordinanza sia alle ragazzine col piercing al labbro e la venerazione per Kurt Cobain. In quest’ultimo aspetto la cosa era facilitata dall’attitudine da bello e dannato del cantante Daniel Johns, peraltro affetto da anoressia clinica, che a un certo punto si sposò addirittura con la connazionale Natalie Imbruglia. Freakshow, il loro secondo – e migliore – album, conteneva delle canzoncine invero molto carine: su tutte Slave, Freak e Lie To Me, ma anche Pop Song for us Rejects, Learn To Hate o Nobody Came. I Silverchair poi fecero presto a perdersi per strada, ma Freakshow continua a farsi ascoltare molto piacevolmente.

ROLLINS BAND – Come In And Burn

Stefano Greco: Classico esempio di persona artefice del proprio destino, Henry Rollins è un animale guida: serio, integerrimo, mai autoindulegente né autocommiserativo. Come In And Burn possiede le sue stesse caratteristiche e non concede nulla a nessuno. Pur essendo reduce dal suo maggiore successo commerciale, Hank resta del tutto insensibile alle lusinghe che, suo malgrado, l’avevano messo per un breve periodo al centro del panorama alternativo. Nonostante la sua asprezza esteriore qui però mr. Rollo raggiunge vari momenti di introspezione e fragilità che in genere non associamo al personaggio (All I Want, The End Of Something). Ovviamente non manca la sua solita dose di consapevolezza che spesso sfiora l’illuminazione (“inhale what I want to be, exhale what I want to be seen”). Henry Rollins è il tizio che se interpellato su qualsiasi argomento è sempre in grado di scioglierti ogni dubbio e consigliarti la cosa giusta da fare. L’unico vero maestro di vita che avrei voluto avere se fossi stato una persona seria.

THE 3rd AND THE MORTAL – In This Room

Edoardo Giardina: Se accostassimo i The 3rd and the Mortal ai tre gruppi inglesi capostipiti del death doom, potremmo tranquillamente dire che tutti e quattro hanno inizialmente avuto sonorità gotiche. Un’altra cosa che li unisce (ma che esclude in parte i My Dying Bride) è l’aver lasciato abbastanza presto il genere degli esordi. Ciò che contraddistingue la band norvegese, invece, è innanzitutto la limitata notorietà che hanno raggiunto, seguita dall’aver fatto della “goticità” una costante della loro carriera. Nonostante, per l’appunto, le divagazioni stilistiche che hanno portato fino a In This Room e oltre. La tipica voce lirica femminile si inserisce in canzoni che spaziano dall’ambient al rock, e che talvolta arrivano addirittura ad un simil-jazz. Altre volte ancora gli strascichi del precedente album ci regalano sonorità al limite del noise e dell’industrial. Mi piace pensare che tutta questa claustrofobia e questo male di vivere molto romantico rappresentino l’essenza del gothic molto più di quanto lo facciano le voci femminile alternate al growl maschile – con l’eventuale presenza di orpelli sinfonici. A prescindere dalla base.

AEROSMITH – Nine Lives

Stefano Greco: Edonismo, culi, tette e sollazzamenti vari. Gli Aerosmith degli anni ’80 stanno al rock and roll come il Drive In di Ezio Greggio sta alla televisione. Sono uno stato mentale e, se uno è dell’umore giusto, sono entrambi il massimo. La gigantesca sbornia che è la seconda vita degli Aerosmith si conclude con Nine Lives, la resurrezione ‘pop’ iniziata dieci anni prima con Permanent Vacation si dissolve in un album il cui il divertimento si affievolisce e comincia a diventare sempre più preponderante la deriva verso le melense ed orripilanti ballad alle quali tendiamo ad associarli oggi. E’ come fosse tutto un grande preparativo ad uno dei più grossi crimini del dopoguerra, l’anno seguente uscirà infatti il singolo I Don’t Wanna Miss a Thing che sarà in heavy rotation sulla totalità dei media per una quantità di tempo che non sembrava dover mai giungere a conclusione. Il loro prossimo tour, pare di addio, si chiamerà Aero-vederci, non c’entra nulla ma mi sembrava giusto segnalarvelo.

U2 – Pop

Trainspotting: Nella sua foga di conoscere il variegato mondo del rock, il piccolo adolescente Barg sentì la necessità di approfondire anche gli U2, dato che venivano considerati da parecchia gente che ne sa a pacchi un gruppone fondamentale che ha fatto la storia del genere. In realtà non è niente vero, dato che gli U2 sono probabilmente il gruppo più sopravvalutato del Pianeta a fronte di giusto un paio di dischi carini all’inizio degli anni ottanta. Pop era una delle loro solite paraculate in cui cercavano di fiutare l’aria per capire dove portava il vento e comportarsi di conseguenza. All’epoca la musica mainstream girava fondamentalmente intorno ad Oasis e Prodigy/Chemical Brothers, e i quattro spudoratissimi irlandesi cercano di riprodurre quegli stilemi. Il risultato fa cascare le palle per terra, e a vent’anni di distanza il giochino è ancora più scoperto. Peraltro ci tengo a specificare che questi avrebbero potuto comporre pure Hallowed Be Thy Name, ma con quella voce del cazzo che si ritrovano avrebbe fatto schifo lo stesso. Pensare che ci sono decine di milioni di persone che si sottopongono volontariamente all’ascolto di questi quattro cialtroni mi fa salire l’Anal Cunt. A proposito:

ANAL CUNT – I Like It When You Die

Trainspotting: Un motivo pratico per dimostrare la pessima deriva dei tempi attuali rispetto agli anni novanta sono gli Anal Cunt: all’epoca esistevano, facevano dischi e venivano apprezzati; adesso, al contrario, semplicemente non potrebbero esistere: e, se esistessero, verrebbero attaccati in massa non solo dai noti personaggi mediatici bacchettoni che pontificano dall’alto del proprio piedistallo morale,  ma persino da una buonissima parte delle scene metal e hardcore, ormai infettate dal perbenismo e dalla brutta malattia di scrivere patetici lacrimevoli post su facebook puntando il ditino contro qualsiasi cosa si discosti dal politicamente corretto; gente che, per dirne una, ha rischiato un embolo nell’indignarsi verso Phil Anselmo che si comporta come un buzzurro ubriacone (ma guarda, sembrava una persona così sobria). È importante non perdere mai di vista ciò che gli Anal Cunt hanno rappresentato, perché a forza di fare le fighette perbeniste si rischia di diventare come le vecchie zie che negli anni ottanta rompevano i coglioni agli WASP e ai Twisted Sister. Mi piacerebbe veder morire questa gente perché è gay, tiene un diario, ricicla la spazzatura (cosa ricchionissima), è probabilmente adottata e spesso apprezza i Supertramp (altra cosa altra cosa ricchionissima). Se non avete capito i riferimenti, vi consiglio di recuperare I Like It When You Die. Se, ancora peggio, vi siete indignati, potete sempre passare il vostro tempo libero a leggere i fotoromanzi, di sicuro più vicini al vostro essere (di merda) rispetto al piccolo, fetente, ma glorioso, Metal Skunk. Perché Metal Skunk non morirà mai; voi sì, e noi venderemo il vostro cane ad un ristorante cinese.

 

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