Sotto il vulcano (nero): HAUNTED – Stare at Nothing

Il 2011 è un’eternità fa. Bargone non si era ancora ritirato dalla società in una magione infestata sulle pendici di una scogliera minacciosa, costantemente avvolta dalle nebbie, e non disdegnava rispondere di persona ai lettori. Ad una domanda della lettrice “fragolina86” (minuscolo suo) circa il posto più black metal della Sicilia, il nostro tirannico diarca (Ciccio non è quello buono, è quello pragmatico) rispose: “Quest’anno sono stato sull’Etna ed è un posto assurdo. Un vulcano gigantesco, completamente nero, che butta fuoco e fiamme in continuazione e si erge minaccioso su una delle più grandi città d’Italia, con centinaia di migliaia di persone che ogni mattina si alzano, mangiano il loro arancino e controllano se sto coso gigantesco butta fuoco o meno, con la stessa tranquillità con cui il resto del mondo guarda fuori dalla finestra per controllare se piove. Vi lascio se volete alla lettura del vecchio pezzo del Barg per i suoi consigli di viaggio per la Sicilia, per me più convincenti di molte agenzie (la forza degli argomenti). A me interessava l’incipit e fare uno scarto a lato: sarà black metal, come posto, ma anche irrimediabilmente doom. Questo anche per introdurre il terzo album dei catanesi Haunted, veri beniamini a casa nostra da quando il Tola li sottopose all’attenzione di redazione e lettori (io, all’epoca lettore, li ho scoperti proprio così). Sei anni sono passati dal secondo e pregevole Dayburner. Uno iato importante. Ne fa a tempo a scorrere di acqua sotto i ponti, in sei anni. Fa a tempo anche tanta lava ad arrivare a valle, al mare. Cosa sia successo nel frattempo alla band guidata da Cristina Chimirri non lo so per certo (di mezzo pure un cazzo di Covid, a proposito di calamità). Fatto sta che ce li ritroviamo ora con un disco nuovo, Stare at Nothing, ed una formazione rivoluzionata.

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Per la precisione sono stati sostituiti il batterista ed i due chitarristi originari. Il che, per un gruppo che si basa sulle chitarre e suona un genere che si basa sulle chitarre, è un passaggio delicato. Ma niente di cui dobbiamo preoccuparci perché le sei corde (quindi non più dodici) sono ora nelle mani della nuova arrivata Kim Crowley. Di cui Metal Archives non riporta proprio nessun precedente, manco estraneo alla nostra musica. Un’esordiente, quindi, ma che si inserisce nel sound dei catanesi con una sicurezza e con dei risultati che hanno del sorprendente. Altro ingresso, il batterista Luca Strano, ben roccioso, mentre a fianco di Cristina è rimasto il bassista Frank Tudisco, anche musicista live degli Schizo (mica cazzi) ed ex Sinoath. Ne deriva un quartetto inedito che mostra però una coesione totale. E lasciatemi tornare sulla prova della nuova arrivata Crowley. Se è un nome d’arte, è ben scelto, se non lo è la cosa è ancora più perfetta. Perché considerate che Thelema, l’abbazia, in fondo è proprio dall’altra parte dell’Etna. Perché la sua chitarra si inserisce nel suono degli Haunted non snaturandolo, ma portandolo ad un livello di compiutezza e personalità maggiore. Ve lo dico, se fino a poco fa gli Haunted erano i migliori discepoli sulla scia dei Windhand, per distacco, ora è ufficiale che gli Haunted sono solo gli Haunted. Intesi, la musica è più o meno quella, ma si sente che scorre più sicura, più libera, meno vincolata dal canovaccio doom internazionale.

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Prendete la prima canzone (dopo l’intro), nonché primo singolo: Catamorph. Prendetene il riff mastodontico, lava colante. Prendetene gli arpeggi wave della strofa misticheggiante. Prendetene la melodia stupenda che si dispiega mano a mano. Prendete la mazzata pesantissima del break e poi i due assoli della Crowley. Specie il secondo, un assolo semplice, melodico, furbo. Preso tutto questo, assieme, in cinque minuti e quaranta di canzone, e ti convinci che anche se il riferimento è ancora presente e da lì viene l’ispirazione originale, oggi la band ha raggiunto un livello di maturità e personalità che fa degli Haunted come minimo uno dei migliori nomi metal e doom nostrani, come minimo, ma che guadagnerà loro sicuro un’esposizione anche all’estero. Un’esposizione che meritano.

Ora, Catamorph è forse la canzone migliore del nuovo album, ma è in compagnia dannatamente buona. Già la successiva, Garden of Evil, pure anticipata in precedenza, gioca sull’inserimento di una sensibilità post punk su di una trama di stoner/doom altrimenti monolitica. Ma la copertina di Stare at Nothing fa pensare solo a me ai Bauhaus? Le logiche non sono più solo psych doom, lineari, con i riff dritti a ripetersi e ripetersi in cerca dell’ascesi. Si introducono dinamiche oblique, come il riff, obliquo, di Malevolent, altro picco del discorso.

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E non temete. Malevolent è letteralmente spezzata in due da un riff stoner doom di pesantezza ragguardevole, per cui se cercate mazzate e scapocciamenti, amici cari, ce ne sono, eccome. L’aspetto esoterico, però, musicalmente parlando, può ora sfruttare anche altre dinamiche. La melodia resta invece il territorio della voce di Cristina Chimirri. Melodia che dialoga coi muri delle chitarre intransigenti della nuova chitarrista e del basso minaccioso di Todisco (che bello il dialogo tra i due proprio nel break e nel riffone di Malevolent) e con la solennità delle partiture di batteria. L’effetto risalta chiaramente la sostanza diafana delle linee vocali, anche se certe increspature appaiono concretizzarsi come del tutto maligne, ad esempio, nella finale Waratah Blossom. Eppure quelle di Stare at Nothing sono canzoni. Anzi, prendete proprio Stare at Nothing, la canzone. Che viene condotta da un riff da ABC di doom drogato e che però poi si apre con la sospensione di un ritornello grunge, magnificamente grunge, per chitarra e melodia.

Quindi, l’anima, il centro catalizzatore delle energie del gruppo, resta lei, la Chimirri. Nell’intervista al nostro Tola, Todisco diede una risposta un po’ evasiva sul tema dell’esoterismo. I testi di Cristina non sono disponibili nemmeno sul Cd che m’è arrivato qualche giorno fa, per cui non so nulla di certo, ma a me questo Stare at Nothing sembra andare più a fondo, un po’ più sotto la superficie. Sarebbe quasi di tornare a chiederlo anche a loro, provando ad estorcere qualcosa di più. Perché, ripeto, al finale Waratah Blossom mette i brividi. Fa salire un gelo che non ha nulla a che vedere con la temperatura percepita sotto l’ombra di un vulcano nero. Fa venire voglia di riascoltare ancora. E infatti io lo sto riascoltando e riascoltando. Potrei starci sopra ancora qualche giorno e trovare parole migliori, ma credo sia meglio non perdere altro tempo e consigliare a voi di tuffarvi subito nell’ascolto di un disco che ci giuro, continueremo ad ascoltare facendolo entrare sotto pelle ogni volta un po’ di più, finché non ne saremo definitivamente stregati. (Lorenzo Centini)

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