Nick Kent: Apathy for the Devil – A 1970s Memoir (Arcana)

Rischiare di morire di overdose alla prima pera e farsi salvare la vita in extremis da Iggy Pop. Seguire Keith Richards in un’allucinata e insonne maratona chimica e finirla con il suo vomito sulla maglietta. Trovare il primo grande amore della propria vita tra le braccia di una Chrissie Hynde ancora a malapena capace di tenere in mano la chitarra. Farsi prendere a catenate da Sid Vicious e pochi giorni dopo condividere con lui e la sua Nancy il sudicio pavimento di uno squat affollato da altri derelitti annichiliti dall’eroina. E soprattutto restare vivi per raccontarlo. Nick Kent, il grande giornalista musicale britannico che con la sua penna contribuì a rendere Nme il colosso che conosciamo, il rock non l’ha guardato dal buco della serratura come tanti colleghi più o meno illustri. Lo ha vissuto appieno, ci si è tuffato con l’entusiasmo incosciente di un appena ventenne proveniente da una placida famiglia della middle-class inglese che si trova di colpo catapultato nell’universo di eccessi abitato delle più grandi band degli anni ’70. Gli sfrenati baccanali del backstage dei Led Zeppelin, dove le groupie cercavano letteralmente di uccidersi a vicenda per avere più chance di infilarsi nel letto di Jimmy Page. La luccicante Babilonia di una California svegliata bruscamente dall’utopia peace & love dei sixties dai massacri della famiglia Manson e dai fatti di Altamont. La Londra livida e grigia che vedrà germinare i semi avvelenati del punk. Kent era lì da protagonista e non da spettatore, e a rendere così avvincente la sua autobiografia è proprio l’intrecciarsi della sua storia di uomo e rock writer con i destini di star planetarie invece inaccessibili per schiere sterminate di fan che le veneravano come divinità pagane, un modo di vivere la musica di fatto incomprensibile per chi si è formato in quegli anni novanta battezzati dal depresso solipsismo del grunge e caratterizzati della perdita di senso del concetto stesso di rockstar in un mondo dove ormai, secondo la disarmante sintesi di Tom Yorke, anyone can play guitar e che poco dopo sarà popolato dai non-idoli in occhiali e giacchetta a coste dell’indie rock istituzionalizzato.

Nick Kent oggi

E’ stata quindi una vicinanza così forte (in alcuni casi sfociata in vera e propria amicizia, come nel caso di un Malcom McLaren simpaticamente cialtrone che sarà aiutato e sostenuto dallo stesso Nick nella gestazione dei Sex Pistols) ai personaggi che sfilano tra le righe di Apathy For The Devil, oltre a- ovviamente – un talento letterario smisurato, che ha permesso a Kent di dipingere i ritratti vividi e indimenticabili che animano queste pagine. Scopriamo così l’insopprimibile dualità di un Iggy Pop cordiale e pacato nelle vesti di Jim Osterberg che diventava schizofrenico e animalesco quando la natura dell’Iguana prendeva il sopravvento, la genialità ineffabile di un David Bowie aristocratico alieno in ogni sua manifestazione, un Lou Reed imbolsito e prematuro has been in procinto di registrare quel Transformer che gli consentirà di sfuggire al baratro, un Mick Jagger sorprendentemente umano costretto a vestire i panni del cinico uomo d’affari per evitare che la corazzata dei Rolling Stones colasse a picco sotto il peso della totale mancanza di controllo di Richards, un Bob Marley omofobo e gangsteristico che aggredisce il narratore credendolo gay (altro che One Love), un Jerry Garcia che affoga nell’oppio il disagio di un ruolo da guru lisergico che non aveva mai desiderato, i complicatissimi equilibri che mantenevano in vita dei Led Zeppelin polarizzati dal temperamento da british gentleman di Robert Plant e dalla figura bestiale e autenticamente tragica di un John Bonham corroso dall’alcol e dalla coca,  l’incontro con la propria controparte yankee Lester Bangs, anch’egli preda di una passione per le droghe che ogni giorno ne minacciava la permanenza in vita e, infine, i giorni del punk londinese che coincideranno con il nadir della parabola personale di un Kent homeless e abbandonato da tutti, licenziato dalla rivista che aveva reso grande e ormai totalmente schiavo dell’eroina, inevitabile destinazione di un percorso di ascesa, caduta e redenzione (i costanti, ma non troppo invadenti, richiami alla filosofia karmica hanno una loro precisa coerenza morale) condiviso da migliaia di musicisti e fan che – in quel decennio irripetibile – mai avrebbero potuto immaginare che il rock sarebbe poi diventato per sempre più gente materia di studio entomologico da dissezionare dietro un monitor, al sicuro da quella vita che nel frattempo scorre da qualche altra parte.

La prima tiratura dell’Arcana è andata esaurita in poche settimane. Io lo ho dovuto recuperare in inglese. Tanto meglio. (Ciccio Russo)

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