La lista della spesa di Griffar: il Natale di Amaterasu

Dei SAMURAI, in giapponese , parlai in occasione del loro debutto del 2022. Tre anni dopo il disco ha un seguito, ovviamente intitolato (le lineette orizzontali sono i numeri giapponesi 1 e 2) e segue la falsariga di quanto abbiamo ascoltato nel primo lavoro. Raw black metal, tesissimo, sfrangiato, estremamente violento, prodotto rozzamente creando così un muro sonoro che avviluppa oscure melodie fin quasi a seppellirle, a nasconderle, così che solo pochi eletti siano in grado di comprendere effettivamente quanto si sta ascoltando. Quando la velocità diminuisce le armonie emergono più vistose e comprensibili, e allora si conclude che in effetti tutta la musica dei Samurai ha senso, solo che ci vuole un po’ più di tempo per afferrarlo.

Gran parte del fascino di questa band di provenienza sconosciuta – così come sconosciuti sono i componenti (o il componente) – arriva proprio da quest’altissima tensione che la registrazione low-fi, le melodie psicotiche, la velocità frenetica e lo screaming acuto e ossessivo sono in grado di creare. Il disco dura 32 minuti ma succhia via la vita, l’energia, lascia esausti e con un acufene fastidioso; il pezzo da 12 minuti conclusivo è come correre tre volte di seguito il Tour des Geants senza fermarsi mai, eppure è il più “accessibile” (in senso moooolto lato, chiaramente).

È un gradito ritorno quello degli ucraini ESKAPISM, che con Skresnava tagliano il traguardo del terzo album, a sei anni di distanza dal predecessore Ancient Songs of the Wind, album di rara bellezza in grado di sprigionare tutta la maestosità del black metal atmosferico appena venato di sfumature folk ed epiche. Succede lo stesso nei quattro lunghi pezzi di questo nuovo lavoro, che pur essendo uscito il primo di agosto è stato in grado di suscitare graditissime sensazioni invernali anche se faceva un caldo bestia.

La band è rimasta la stessa, un trio affiatato di artisti che hanno le medesime vedute di come la loro musica deve essere; largo quindi a grandiose melodie incastonate su una struttura dei brani non esageratamente complessa, con variazioni di ritmo e velocità utili a tenere vivo il pezzo in ogni sua parte senza che l’ascoltatore possa minimamente perdere l’interesse durante il suo dispiegarsi. Quando tirano pestano come dannati, ma poi si quietano, si abbandonano a sezioni dolci e romantiche come quella di flauto in The Forest of Silent Shadows, di chitarre armonizzate prima e di chitarre acustiche più tastiere oltre la metà di Orison e così via. Qualche approccio al folk c’è ancora, pur se sporadico, ma tutto ciò premesso l’unica cosa che davvero si può dire di Skresnava è che raggiunge picchi di assoluta eccellenza, che gli Eskapism devono andarne oltremodo fieri e che se non andate ad ascoltarlo non sapete che cosa vi perdete.

Per chi gradisce il black americano di stampo Judas Iscariot un buon suggerimento è quello di andare a recuperare il secondo LP degli ignoti americani THY WOE: nessuno sa chi o quanti siano, l’unica notizia certa è che agiscono in quel di Pittsburgh. In Shaped by Vulgar Hands non troverete innovazione o chissà quale temerario stravolgimento del classico black metal nato in Europa nel 1991 e importato qualche anno più tardi dagli americani, che in un certo senso lo hanno conservato evolvendolo nel modo che molti di noi blackster della vecchia guardia immaginammo avrebbero fatto gli scandinavi. In molti casi non fu così: a perpetuare quel modo di concepire il black ci hanno pensato nel Nuovo Mondo e va bene così, ben vengano anche i Thy Woe, che non pretendono di cambiare le cose, ma ciò che fanno è più che soddisfacente.

Prodotto discretamente, suonato con competenza e scritto con passione, il disco è una mezz’ora di musica suddivisa in sette brani di nicchia sparati uno di fila all’altro senza alcuna pausa. Si rivolge ad un pubblico esiguo ma ripeto: se vi garbano questo tipo di sonorità e ve lo sparate in cuffia a volume autolesionistico non starete sprecando il vostro tempo. Occhio alla conclusiva Drawn into the Blackest Place, che anche se solo per un breve tratto prevede uno strano arrangiamento di tastiere in modalità sequencer: che possa essere foriera di novità future? Vedremo…

Ad agosto per Naturmacht rec. è uscito anche il secondo album dei valsesiani INDREN (è il nome di una delle punte più alte nel massiccio del Monte Rosa), duo formato da C. Nordlandson – tutti gli strumenti e le composizioni – e Lord Skarn, qui in veste di cantante, ma nel cui progetto principale À Répit si occupa di tutto. Nordlandson è stato ospite in un album degli À Répit ed entrambi hanno partecipato alla realizzazione di Spirito Antico dei Teuta (2022). C’è fermento in quelle montagne a Nord. Anche il black metal degli Indren è classificabile come atmosferico, per quanto molto meno impostato (l’unica eccezione è la breve Starbound) sulle tastiere.

Al 95% Duskborn è tutto suonato su chitarre, basso e batteria, e le sezioni atmosferiche sono dovute principalmente alle chitarre non distorte. Invero, l’album è spesso suonato a velocità sostenute, e le sezioni più rocciose e compatte sembrano essere tenute volutamente in minor quantità. Largheggiano i riff monocorda, talvolta raddoppiati sull’ottava più alta, e gli stacchi meno veloci praticamente servono a spezzare lo schema base “all’assalto avanti tutta” che altrimenti alla fine risulterebbe persino esagerato. Non è così, il disco è vario e coinvolgente grazie a riff assai ispirati e ad una notevole cura nell’assemblaggio delle varie idee, dimodoché il tutto abbia un valore più elevato della somma delle sue parti. Nel complesso l’impressione che si forma dopo aver ascoltato il disco un po’ di volte è che gli Indren siano mediamente più aggressivi e furenti della maggior parte dei gruppi atmospheric black, aspettatevi quindi musica meno orchestrale e più accostabile al black tradizionale con derivazioni epic/pagan/folk, tipo Eld degli Enslaved, i primi Kampfar, i primi Helheim. (Griffar)

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