Gli Omnium Gatherum so’ piezz’e core

C’è stato un periodo in cui ho seriamente adorato gli Omnium Gatherum. È stato ormai tanto tempo fa, e tutto nacque per caso, quando nel 2008 i finlandesi pubblicarono il loro quarto album, The Redshift. Non ricordo come successe, ma incappai in un pezzo di quel disco chiamato A Shadowkey, che riuscì ad accendermi qualcosa dentro. E quel pezzo è talmente bello che ogni volta che lo riascolto, anche adesso, mi colpisce alla stessa maniera, e ogni volta è come la prima volta. Sapete, quelle cose che per qualche motivo ti restano incise nel cuore e tu non sai neanche davvero il perché.

For aeons and nanos
We danced, my love
The truest queen of night

A quel punto iniziai a seguirli come si conviene a un gruppo che ti piace così tanto, e aspettai il successivo album New World Shadows come il deserto aspetta la pioggia, per dirla col proverbio. Non rimasi deluso, e peraltro anche in quel disco c’era un pezzo specifico, quello omonimo, che riuscì a muovere qualche mia corda nascosta.

You are programmed
Not to play
But to die
Blind

Dopodiché qualcosa cominciò a sfaldarsi. Gli Omnium Gatherum persero il fuoco, presero ad ammorbidirsi, a cercare forzosamente il ritornello evocativo, a lavorare meno su quei meravigliosi intrecci ritmici che ne erano la cifra più riconoscibile, fino a scivolare tristemente nell’irrilevanza. Ascolto musica da troppo tempo per pretendere di aspettarmi la stessa media qualitativa dopo una serie prolungata di album, ma c’è modo e modo, come potrete immaginare. L’ultimo paio di loro dischi neanche li ricordo, e quando ciò accade raramente è per caso.

Quindi, data per assunta la fisiologica impossibilità di mantenersi ad un livello alto, come avrebbero mai dovuto finire a suonare gli Omnium Gatherum? Risposta secca: come in quest’ultimo May the Bridges we Burn Light the Way. Che non è un capolavoro (e per me The Redshift e New World Shadows ci andavano molto vicino) e più in generale non è neanche qualcosa che ti fa drizzare i capelli in testa. Ma è un disco che si lascia ascoltare, che riprende i loro stilemi tipici senza forzature o smanie evolutive fini a sé stesse, e che ha anche qualche bel passaggio che ti fa alzare il volume e ti invoglia al riascolto. Certo, ha pure dei momenti meno ispirati, ma questo è perfettamente naturale e fa parte del gioco.

A questo punto mi sa che dovrei recuperare il precedente Origin, uscito quattro anni fa, che avevo ascoltato distrattamente con le aspettative bassissime per poi non riprenderlo più. Li avevo dati per morti, e invece questo loro decimo full più lo ascolto e più mi piace. Ne sono stati anche tratti tre video, segno che anche alla Century Media credono ancora in loro. Ed è sempre bello riascoltare la voce di Jukka Pelkonen, uno dei growl più personali e intensi in circolazione. Bentornati, Omnium Gatherum, è bello ritrovarvi così. (barg)

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