Avere vent’anni: DEPECHE MODE – Playing the Angel

Non ascoltavo da anni Playing the Angel, l’album del ritorno dei Depeche Mode a quattro anni da Exciter che tanto aveva diviso il pubblico con le sue sperimentazioni e la sua produzione e che, per molti aspetti, resta l’ultimo album in cui i Nostri hanno cercando di fare qualcosa di diverso, fino all’ultimo, ottimo, Memento Mori. Tanto quanto Exciter era un album interessante e da riscoprire, ma imperfetto, quanto Playing the Angel era e resta un lavoro fondamentalmente perfetto nel suo tornare a territori più battuti ed essere, almeno all’apparenza, un disco più “sicuro”.

Il disco arrivava dopo diverse voci di possibile scioglimento del gruppo e dopo reali incomprensioni tra Gore e Gahan, con quest’ultimo che portava un contributo più sensibile alle composizioni. Playing the Angel aveva anche il compito di rassicurare i fan della band e, in tal senso, i primi due micidiali singoli erano riusciti in pieno. Tutto ciò in un album in cui una certa elettronica di matrice ottantiana tornava a farla da padrona, ma tenendo in mente la lezione degli anni ’90, come nella nuova Barrel of a Gun chiamata Join the Revelator, quasi un gospel in salsa electro-rock.

Questo ritorno al passato ha portato un successo strepitoso, vagonate di copie vendute – non una novità per i Depeche Mode, ma con numeri ancora più importanti – un tour trionfale con una memorabile data all’Olimpico e ospitate televisive, compresa l’esibizione a Quelli che il Calcio, con tanto di “memorabile” chiosa di Simona Ventura “kings of electronic pop!”. Ma Playing The Angel non era e non è comfort food cucinato bene, non è il classico ritorno al passato per vendere, non è affatto la parmigiana della mamma. Non lo era allora e non lo è ancora oggi, a vent’anni della sua pubblicazione, ed è per questo che poc’anzi l’ho definito solo in apparenza “sicuro”. Perché, oggi ancor di più, il ritorno a sonorità più synth-pop, se si escludono i singoli, arriva in una chiave volutamente minore, tetra e “sgradevole” che di rassicurante ha davvero ben poco. Così come i gufi non sono quello che sembrano, allo stesso modo brani solo apparentemente orecchiabili nascondono un’anima estremamente inquietante, e se già questa impressione inizia a concretizzarsi con il tono malinconico di una Suffer Well, dalla successiva The Sinner in Me, splendido brano ossessivo e martellante, questa componente viene fuori in modo ben più preponderante.

Perché se, alla fine, i Depeche Mode non sono mai stati una band positiva, quantomeno dal capolavoro Some Great Reward in poi, con il passare del tempo e con una certa maturità i Nostri hanno messo in luce un lato ancor più nichilista che viene fuori in brani come Nothing’s Impossibile, che non avrebbe sfigurato su Black Celebration, o la conclusiva, cupissima come da titolo, The Darkest Star. E persino nei brani che, sulla carta, danno più spazio alla melodia, come la doppietta cantata da Gore – Macro e Damaged People – non fanno mai trasparire una vera luce.

Un lavoro che apre una terza età della carriera dei Depeche Mode in cui i Nostri, paradossalmente, approfondiranno sempre di più soluzioni spigolose, pur inserite in un contesto pop, ma con una fruibilità molto minore rispetto al passato; fase che tra risultati più – Delta Machine e Memento Mori – o meno – Sounds of the Universe – convincenti, resta sempre estremamente interessante e ci mostra una band che non si è mai adagiata sugli allori, anche dopo tutto questo tempo. (L’Azzeccagarbugli)

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