Avere vent’anni: SOLEFALD – Red for Fire: An Icelandic Odyssey Part. I

Red For Fire, prima di due parti della Icelandic Odyssey narrata da Cornelius e Lazare, è probabilmente l’ultimo grande disco dei Solefald, gruppo che ho sempre amato molto e che ha raccolto – come spesso accade – meno di quanto avrebbe meritato e, per chi scrive, uno dei loro lavori migliori in assoluto.

Sotto un piano prettamente personale, sono estremamente legato a questo album, anche perché all’epoca ebbi l’occasione di intervistare, insieme a Roberto Angolo – pelosa mascotte della redazione, un simpatico incrocio tra il pupazzo Gnappo e Ciro, l’orso che parla napoletano – sia Cornelius che Lazare. All’epoca entrambi eravamo webzinari per due noti portali e avemmo il placet per fare un’intervista doppia, a quattro mani, da pubblicare sulle due webzine. Una sorta di gemellaggio per un’intervista che – lo dico senza falsa modestia – venne fuori benissimo, con oltre due ore complessive di chiacchiere a 360 gradi, con un Cornelius che si sforzava di rispondere in italiano e un Lazare che si prendeva il suo tempo per rispondere al meglio a domande estremamente elaborate. Tanto elaborate che l’intervista non uscì mai: un po’ perché, evidentemente, ci pesava il culo a sbobinare due ore di intervista, un po’ perché, fondamentalmente, sembrava quasi una lunga chiacchierata tra amici, tra cazzeggio e metallo, e forse inconsciamente ce la siamo voluti per noi. Una cosa però la ricordo bene, ossia che Cornelius approfondì quello che avevano scritto nel comunicato stampa che accompagnava l’uscita del disco: “Solefald was experimenting when everybody was being true. Now that things are changing and that we’ve pushed the experiment quite far already, we wanted Red for Fire plus Black for Death to be our attempts at being ‘true'” (…) we wanted Red for Fire plus Black for Death to be our attempts at being ‘true’. This will be a true nordic viking metal album”. Cornelius fondamentalmente ci disse che all’inizio questa idea – benché perseguita a livello tematico – era poco più di una boutade, in quanto musicalmente non si sarebbero discostati troppo dalle loro ultime uscite, ma più andavano avanti e più il suono è andato realmente in quella direzione.

La prima parte di questo dittico è senza dubbio il disco più classico dei Solefald, quello più “estremo” da Linear Scaffold, ma al tempo stesso non può essere ritenuto a conti fatti un lavoro viking metal tout court. Sin dalla splendida apertura di Sun I Call – uno dei migliori brani mai scritto dal duo – si intuisce infatti che pur essendo la matrice, anche tematica, quella del viking, i Nostri non rinunciano alle contaminazioni che avevano caratterizzato i loro lavori più recenti, soprattutto In Harmonia Universali. Se, infatti, Red For Fire, vanta in sequenza alcuni dei brani più violenti e diretti dei Solefald come Where Birds Have Never Been o l’ottima There is No Need, più si va avanti con gli ascolti e più si comprende che anche a livello compositivo il disco é ben più complesso e strutturato su più piani. Se, quindi, da un lato le influenze più classiche di capolavori inarrivabili, come Eld, sono ben evidenti, dall’altro é come se i Solefald avessero preso ispirazione proprio dallo spirito più “progressivo” degli Enslaved di quel periodo per giungere però su altri lidi rispetto ai connazionali.

In tal senso, basta concentrarsi sugli arrangiamenti che pervadono tutto l’album e in particolare sugli archi, su cui è stato fatto un lavoro pazzesco che dovrebbe preso come paradigma per il loro utilizzo in chiave metal: in alcun casi fanno quasi da contrappunto, come in Survival of The Outlaw, in altri si fondono con il tessuto dei brani, come nella notevolissima Crater of the Valkyries, in altre ancora diventano ossatura delle composizioni, come nel capolavoro White Frost Queen, impreziosita dalla presenza di Aggie Frost Peterson dei Frost, anche presente sull’apertura dell’album. La chiusura, circolare, è affidata magistralmente a Sea I Called e migliore conclusione non potrebbe esserci; questo rappresenta anche, paradossalmente, il suo difetto: perché, se questa è la prima parte di un dittico, la giusta esaltazione – che ci fu anche all’epoca della sua pubblicazione – non fu altrettanto ripagata da quella della sua seconda parte, uscita l’anno dopo, che, pur essendo un lavoro di buona fattura, non raggiunge le vette del suo predecessore e inaugura una parentesi “confusa” nella carriera dei Solefald che è attualmente ferma a dieci anni fa. (L’Azzeccagarbugli)

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