Cordoni, Spaghetti & Caproni: la rassegna stocastica dei bassisti metal italiani #5 – Walter Garau
Per chi ci segue da qualche tempo, Walter Garau è una figura nota, perché lo abbiamo incontrato come bassista in diverse formazioni italiane, sia storiche che attuali. Nato musicalmente all’interno della scena grindcore sarda degli anni Ottanta, è da sempre specializzato nel metal estremo. La sua carriera è iniziata con gli Ass Ache, in breve è diventato uno dei principali protagonisti del fenomeno Calvary, che vi abbiamo raccontato qualche mese fa, poi negli anni si è dedicato al brutal e al death metal tecnico, per esempio con A Place for Murder, Cerebral Extinction, Cinerarium, Devoured by Vermin, oppure al black, con i Lucipher’s Stigmata e gli Orcrist, ma di recente si è anche calato negli abissi del dark sound, con insiemi di alto profilo come i Mater a Clivis Imperat e i Tony Tears. Questi sono solo esempi di gruppi in cui ha suonato Walter nella sua ormai lunga carriera, in realtà ce ne sono molti altri e, per certo, altri ne arriveranno. Siccome siamo amici da un po’ di tempo, dal 1991, per scherzare gli dico che al mondo “ci sono più gruppi con Walter che senza”. Chi mi sente ride, ma è indubbio che la sua competenza musicale, unita alla sua grande passione, lo abbia reso un bassista noto e richiesto da molti gruppi diversi. Walter, anche noto sui social come Wally Ache, in realtà è un vero protagonista dell’underground metal, sia nazionale che internazionale: oltre ad essere musicista è stato il principale tape trader italiano negli anni Novanta, è stato redattore di fanzine, per esempio di My Sardinia, appartenente al suo periodo sardo, e organizzatore di eventi locali: sempre negli anni Novanta, è riuscito a far suonare nella sua Macomer (NU) gruppi come Bulldozer, Agathocles, Clock DVA: non erano, né sarebbero oggi, imprese da poco. È anche una persona estremamente cordiale e di compagnia, con cui si può parlare di qualunque argomento: storia, letteratura, attualità, meccanica, ed è inoltre un esperto di arte, altra sua grande passione. Non ci ho mai parlato di giardinaggio, ma sono certo che abbia da dire la sua su come si coltiva il mirto. Avviandoci a parlare con il bassista Walter, vi anticipo che è stato uno dei primi metallari italiani a usare il fretless, se non il primo in assoluto nel nostro genere e da allora, ovvero dai tempi dei Calvary, lo usa per raggiungere un accompagnamento e un tipo di suono estremamente personali. Ha inoltre una profonda conoscenza della teoria ed è in grado di penetrare nei brani che suona esaltandone il rimo e l’armonia, oppure giocandoci opportunamente; sono ben riconoscibili le sue “fughe” bassistiche, quando gli piace esprimersi con virtuosismi nel registro più alto per far cantare quello che gli interessa. Ascoltiamo, direttamente dalla sua voce, la sua idea di basso e di musica.
Ciao Walter, bentornato su Metal Skunk. Adesso sei qui in veste di bassista, quindi concentriamoci sullo strumento più importante dell’universo: dicci, cos’è per te il basso?
Arrivo al basso dopo una microcarriera come chitarrista classico: da giovanissimo mi esibivo a scuola, nei licei, nelle biblioteche, quindi ci arrivo non come primo strumento, ma come strumento di seconda scelta, nel senso che quando formai gli Ass Ache, il mio primo gruppo, il chitarrista c’era già e mancava il bassista, quindi dovetti necessariamente cambiare. Però nel mio paese c’era un bassista incredibile, Gianluigi Mannea che mi ha fatto innamorare ben presto di questo strumento. Poi avevo anche un amico di Sassari, Alessandro Naìtana, che già nel 1988, quando io avevo 17-18 anni mi aveva fatto conoscere bassisti eccezionali come Jeff Berlin e Michael Manring, quindi ho avuto subito persone che mi hanno indirizzato e mi hanno fatto capire cosa potesse essere questo strumento, che quasi tutti consideravano da accompagnamento, ma poi alla fine per chi lo conosce in profondità è tutt’altro. Io ho iniziato a studiare il basso con un’impostazione molto classica, tant’è che, nonostante io abbia fatto grind fin dall’inizio, in una canzone degli Ass Ache che s’intitola Nuclear Advantage c’è un arpeggio che tantissime persone hanno preso per un arpeggio di chitarra classica. In realtà era un arpeggio suonato da me col basso. La mia impostazione, fin dagli albori, non era di fare linee di basso lineari, ma ho sempre cercato di creare un pavimento sonoro differente, con delle idee poco convenzionali. Quando sono partito non avevo nessuna abilità che mi permettesse di suonare in maniera magistrale, però grazie a questi amici ho avuto una buona impostazione iniziale e ho imparato da bassisti di altissimo livello.
Quindi, se torniamo indietro nel tempo, tu in realtà volevi fare il chitarrista, ma è stata l’opportunità degli Ass Ache a farti scegliere questo strumento?
In realtà io non suonavo nemmeno la chitarra elettrica: suonavo chitarra classica. Quando decisi di mettere su il primo gruppo non ero proprio intenzionato a suonare la chitarra, per di più c’era questo ragazzo del mio paese, Andrea “Lars” Ferraro, che era già bravo e aveva già composto diversi riff, per cui la voglia di suonare era così grande che per me è stato quasi naturale scegliere il basso. Avrei potuto suonare anche il gong, bastava suonare! Comunque non era un ripiego, è stata una scelta e d’altra parte nel mio paese [Macomer] i bassisti erano pochissimi e nessuno voleva fare grind. Ma questo non solo in Sardegna: penso che in tutt’Italia fossero in pochissimi a voler suonare quel casino, quel disastro sonoro che è il grindcore.
Ricordi il tuo primo basso?
Il mio primo basso prima me l’hanno prestato, poi l’ho acquistato: era un Eko degli anni Ottanta, molto bello. Dopo di quello ho iniziato a comprare in maniera malata qualunque strumento mi venisse proposto, sempre nei limiti delle mie condizioni economiche abbastanza precarie. In mano mi sono passati tantissimi bassi.
Quali sono gli altri bassisti a cui ti sei ispirato, che ti hanno fatto crescere come strumentista?
A parte Berlin e Manring che ho già citato, c’era John Patitucci che ho visto molte volte dal vivo durante le estati sarde. Vidi anche Anthony Jackson che era una cosa inarrivabile, con un sei corde pesantissimo: lo suonava da seduto e faceva delle cose inimmaginabili. Adesso c’è una caterva di bassisti eccezionali da vedere. Un altro che mi aveva colpito tantissimo era Les Claypool dei Primus: non solo suonava benissimo, ma cantava, anche in controtempo, danzava, non si capiva come facesse a far tutte queste cose contemporaneamente, era un alieno. Parlando in concreto di brani per basso che mi sono rimasti nel cuore c’è Geometry di Michael Manring: ascoltandolo per la prima volta ho capito che il tapping era la tecnica più bella del mondo, oltre al fatto che fosse il miglior brano per basso di tutti i tempi. È talmente complicato che nessun bassista è mai riuscito a riprodurlo. È talmente difficile da coordinare che ci volgono due cervelli, è veramente il pezzo più importante che ci sia a livello bassistico. Un altro che mi ha colpito è 20.000 prayers dei Players, dove c’era un assolo di Jeff Berlin che per me è l’equivalente dell’Infinito di Leopardi sul basso: è la poesia più alta che uno strumentista sia mai riuscito a toccare a livello di melodia. È la perfezione totale. Quando ero giovane ho cercato di tirarlo giù a orecchio, ci sono riuscito dopo un mese di lavoro. Adesso ci sono tantissimi tutorial rallentati per poterlo studiare, è molto bello e lo consiglio a tutti. Questi due brani che ho descritto sono alla base della mia formazione. Ora naturalmente ci sono musicisti pazzeschi, ad esempio c’è Evan Brewer, che un po’ emula Michael Manring: con una mano suona una melodia, con l’altra si accompagna, anche lui è un grandissimo bassista. Suona nei The Faceless e in altri gruppi, ora suona negli Entheos, però diciamo che Evan Brewer è maggiormente famoso per la carriera da solo: ha realizzato due album pazzeschi, veramente lui è uno dei bassisti più sottovalutati che ci siano. Poi naturalmente c’è Victor Wooten, che per me rimane sempre un riferimento costante. Io seguo inoltre diversi youtuber che sono molto molto bravi, ad esempio c’è John Ferrara, che è uno dei pochi che fanno video senza editare, si vede che i suoi video sono ripresi in un’unica sequenza e senza postproduzione. È questo che faccio anch’io: i miei video sono one take, io suono tutto ad un fiato e si sente, non edito assolutamente nulla, al massimo posso alzare il volume di qualche nota, ma giusto perché magari l’ho schiacciata male e vorrei che si sentisse diversamente. Per altro, io sono un bassista certamente da palco, che è la situazione dove do il meglio; riconosco che le mie esibizioni dal vivo sono superiori a quelle che io faccio in casa da solo, perché sono anche più motivato quando vedo i miei amici dal palco, quando interagisco con gli altri musicisti, quindi io continuo a dare il meglio dal vivo, con il mio sudore, con la mia fatica.
Quindi, tornando alle tue ispirazioni, i tuoi bassisti di riferimento sono principalmente fuori dal metal?
Sì esatto, molti bassisti sono fuori dal metal, ma ovviamente ci sono una valanga di bassisti in campo metal che meritano. Prendiamo per esempio il bassista degli Archspire, Jared Smith: lui è pazzesco. Quando lo si sente dal vivo non lo si capisce molto, perché per una questione di acustica è difficile e, del resto, un gruppo come gli Archspire sono prevalentemente da studio. Loro sono molto bravi, però per rendere davvero quello che fanno, bassista compreso, devono avere un livello di acustica perfetto e questo non succede mai: la maggior parte delle volte, quando ci si esibisce nei locali, alla fine è quello che conta è il suono che esce dall’insieme, non i dettagli fini come l’accento sui sedicesimi, che si potrà apprezzare ascoltandoli dallo stereo.
Cosa dovrebbe fare un bravo bassista in un gruppo? Qual è il ruolo del bassista secondo la tua visione?
Innanzitutto deve scegliersi un maestro. Vanno bene anche i video su Youtube, che sono molto importanti, però io penso che si cresca solo ed esclusivamente se si prendono delle lezioni in presenza, anche online. L’importante è che siano lezioni individuali e incontri in cui ci si possa confrontare con una persona che ti istruisce. Il maestro poi deve avere una base teorica molto importante. In giro io vedo tantissimi strumentisti che magari sono anche bravi, ma che non hanno le minime basi di teoria musicale, non l’hanno mai studiata, e questa è una mancanza grave. Poi un’altra cosa che secondo me è importantissima è quella di non limitarsi ad ascoltare solo un genere musicale, ma spaziare, spaziare tantissimo, e cercare di fare propri gli stili delle musiche diciamo “esterne” a quella che si suona, con il proprio gruppo o da soli, per poi interiorizzarli e cercare di portarceli dentro, con la finalità di avere idee e creare qualcosa di nuovo. Per esempio, io nei Cerebral Extinction uso molto il walking bass e le scale cromatiche, che nel brutal death possono sembrare una cosa oscena, però alla fine ci stanno bene, almeno io sento che ci stanno bene e quindi ho molti riferimenti al jazz e al blues. Funziona anche questa visione un po’ multiforme della musica, perché, se si suona brutal e se si ascolta solo brutal, non si esce da quel mondo, quindi le melodie che si vanno a creare saranno sempre uguali e sempre le stesse, per cui alla fine arrivano ad annoiare, soprattutto chi suona, non tanto chi ascolta. Quindi tornando a noi: maestro, costanza col maestro, lezioni settimanali, non solo affidarsi a YouTube e ai tutorial, che sono comunque molto validi, ma restano tali se sono supportati da una base teorica. Poi ci vuole una visione aperta a tutti i generi musicali, un’apertura mentale a cui si arriva non solo suonando, ma anche ascoltando.
A proposito di maestri, tu hai mai fatto l’insegnante di basso?
Io non credo di essere portato. Ho avuto un allievo diversi anni fa, ma alla fine mi sono reso conto che per essere maestro bisogna essere capaci di far sudare le persone. Il mio maestro Luca Nicolasi diceva sempre che non è una lezione se non si suda. Il problema mio è che sono molto accomodante, perché alla fine non mi sento di essere rigido e severo con le persone. Non ho il carattere per cazziare nessuno e quindi mi rendevo conto che quel ragazzo che veniva a lezione da me, il quale arrivava totalmente impreparato, non riusciva a progredire e soprattutto non crescevo io come musicista. Non penso di essere tagliato a fare l’insegnante, perché insegnare vuol dire trasmettere delle cose e, se sei troppo buono, troppo mite, alla fine non riesci a trasmettere niente. Ci sono poi tante persone che vorrebbero imparare una tecnica specifica, per esempio mi chiedono di insegnare loro il tapping o lo slap, ma chi parte volendo imparare una tecnica specifica, secondo me, ha già sbagliato in partenza. Se io dovessi mai insegnare, inizierei proprio dagli albori, dagli argomenti più basilari della teoria musicale. Facciamo qui un esempio molto concreto: per chi vuole iniziare a suonare il basso mi sento di consigliare il Dante Agostini.
Il Dante Agostini! Lo conosco bene, per solfeggio ritmico, l’ho studiato anch’io
Eh si, è un testo di solfeggio ritmico pensato per batteristi, però è un metodo validissimo anche per i bassisti, che fa capire ai ragazzi quali siano le basi. Uno dei problemi che vedo è che i ragazzi giovani hanno troppa fretta di mettersi a fare gli strumentisti in breve tempo per suonare in un gruppo. Adesso dico una cosa da anziano e poi mi prendo tutti i rimproveri per quello che sto dicendo, però penso che la nostra generazione capisse che c’era un percorso da fare: questo percorso aveva un inizio e non potevi entrare mai a metà del percorso. Ognuno di noi sapeva che doveva iniziare dalla pagina 1 e finire dalla pagina 100. Invece vedo molti ragazzi, come quelli che mi chiedono di insegnargli lo slap, di insegnargli il tapping, che vogliono entrare dalla pagina 80 e non hanno nessuna voglia di studiarsi le prime 80 pagine. Ecco, questo non è corretto, ma soprattutto non porta a nulla. Il Dante Agostini ti insegna veramente ad acquisire una capacità ritmica pazzesca: sui quarti, sugli ottavi, sui sedicesimi, a tutte le velocità; è proprio da qui che si deve partire. Anche se si ha acquisito qualche base, non si può pensare di buttarsi su tecniche avanzate che presuppongono conoscenze ritmiche, melodiche, armoniche ed esperienza di musica d’insieme. A latere, ritengo personalmente che la musica stia passando un periodo abbastanza triste, proprio esattamente questi mesi che stiamo vivendo. Questo periodo molto brutto può essere sintetizzato da un documentario, che s’intitola The Ethics of Fake Guitar di Adam Neely:
Io raccomando di vedere questo video a qualunque persona, musicista o non musicista, in modo tale che capisca veramente quello che sta succedendo ora nella musica, dove si è arrivati a un livello veramente aberrante. Oggi le possibilità di imparare a suonare uno strumento sono molto più accessibili e veloci rispetto a 30 o 35 anni fa, però allo stesso tempo si sta perdendo il senso della vera performance e del confronto con il pubblico reale: un tempo c’erano musicisti bravissimi che suonavano prevalentemente dal vivo ed erano davvero eccellenti. Ora, invece, vediamo ottimi strumentisti, ma solo da computer. E questo video, che è un documentario, fa il riassunto di questa deriva triste e preoccupante. Poi, alcuni mesi fa è accaduto un dramma a livello mondiale, emblematico sempre di questa situazione: un chitarrista molto seguito online è stato accusato di aver copiato riff da altri musicisti, meno noti e con meno visualizzazioni sui social, senza citarli, pubblicandoli come propri e vendendone le trascrizioni. Dopo la diffusione di queste accuse, ha pubblicato un video di scuse e ha rimosso parte del materiale contestato. Tuttavia, sono emerse anche altre critiche legate a sponsorizzazioni non dichiarate e comportamenti poco trasparenti verso aziende e colleghi. La vicenda ha compromesso la sua reputazione e ha portato alla rottura con alcuni sponsor. Non facciamo nomi qui, ma il fatto è pubblico e lo si può verificare. Questo scandalo ha messo in luce tutta la falsità che si nasconde dietro ai contenuti che vengono diffusi su Instagram e su YouTube: una finzione che molti musicisti veri, quelli che suonano dal vivo, non hanno e non avranno mai. Purtroppo è così: oggi ci sono tantissimi strumentisti talentuosi, ma spesso la loro bravura esiste solo nei video che preparano meticolosamente a casa. Questi, che sembrano atleti dei loro strumenti in video, dovrebbero farsi vedere su un palco davanti al pubblico. Il documentario che ho citato di Adam Neely, in particolare, riassume benissimo il problema: ciò che è falso o costruito si può replicare solo nei video, ma non dal vivo. Ti faccio anche un esempio di segno opposto: Kai Eckhardt, il bassista che ha suonato con John McLaughlin. L’ho visto dal vivo anni fa, ed è stato sconvolgente. Su YouTube e sui social si trova poco o nulla di lui, ma sul palco è una macchina da guerra. Quindi sì, gli strumentisti veri ci sono eccome, soltanto che, a differenza dei personaggi da social, non sono ovunque online, e forse per questo non saranno mai famosi allo stesso modo.
Tu hai sempre suonato in tantissimi gruppi, per cui volevo sapere se come bassista usi un approccio specifico per ciascuno oppure hai un metodo tuo, ovvero: ti adatti alla situazione o cerchi di suonare sempre con un tuo stile?
Io cerco sempre un suono che mi faccia sentire a mio agio. È una cosa molto semplice, costruita su pochissimi elementi: uso un compressore, una pedaliera essenziale e ormai riesco ad adattarmi a qualsiasi situazione dal vivo. Qualunque sia l’amplificatore o l’impianto, riesco a ritrovare quel suono che mi rappresenta. È un suono centrato molto sul registro medio: uso pochissimo le note gravi, sto spesso nella zona alta del manico, anche ben oltre il dodicesimo tasto. Quindi ho una scelta di note abbastanza alta e questo a volte fa incazzare alcuni gruppi. Ma col tempo ho imparato a conoscere bene anche i chitarristi e, quando entro in una nuova band, chiarisco subito che questo è il mio modo di suonare. Non riuscirei a suonare in un altro modo solo per compiacere gli altri. L’ho fatto in passato e non mi ha fatto stare bene. Non uso molto gli effetti: ne ho comprati tanti, ma li uso solo in poche occasioni, più per divertimento personale. Il mio suono deve restare riconoscibile, coerente, in qualunque contesto. L’unico compromesso che accetto è sull’accordatura: se una band suona in drop B o drop A, non posso certo pretendere di restare in standard, però, per il resto, sono molto esigente con me stesso e cerco sempre quel suono “morbido”, non distorto, che porto avanti da sempre. Devo dire che, nel mio piccolo, mi ha dato soddisfazioni: alcune persone, ascoltando alcuni miei lavori, mi hanno detto “ma ci sei tu al basso, vero?”. Una frase così, per molti magari banale, per me è un riconoscimento enorme. È una cosa molto bella, il fatto di essere riconoscibile, il fatto che comunque stai lasciando un segno e la gente se ne accorga, specialmente con il basso, perché è uno strumento che non è mai troppo in risalto, per quanto noi ci sforziamo di farlo risaltare, ma alla fine è sempre un passo indietro gli altri.
Tu suoni da più di quarant’anni: se ti guardi indietro cosa ne pensi, cosa ti sta lasciando questa lunga carriera?
Sai, io non sono mai stato particolarmente pretenzioso. Conosco tanti musicisti che suonano da tanto quanto me e che ancora oggi versano lacrime per le occasioni mancate, per i traguardi non raggiunti. Io, invece, non ho mai passato il tempo a rimuginare su ciò che avrei potuto fare o diventare: ho sempre vissuto la musica come un investimento su me stesso, non come una corsa al successo. L’unica cosa che, col senno di poi, mi ha pesato un po’ è il fatto di non aver mai avuto un vero sostegno, non parlo di soldi, ma parlo di supporto umano, di incoraggiamento da parte dei miei genitori. Loro hanno sempre visto la musica come una perdita di tempo, qualcosa che mi distraeva dalle cose “serie” della vita. Ecco, quella mancanza di comprensione mi ha fatto soffrire più di ogni altra cosa. Per il resto, non so quanto io abbia lasciato agli altri, ma so quanto ho raccolto e, nel mio piccolo, posso dire di essere contento, perché non è facile portare avanti un percorso musicale. Ci vuole tanta pazienza, tanta costanza e poi c’è un’altra verità, che chi suona in tanti gruppi conosce bene: quando entri in una nuova formazione, è un po’ come cominciare un nuovo lavoro. Puoi avere tutta l’esperienza del mondo, ma resti comunque quello arrivato per ultimo. Gli altri ti guardano con un po’ di distanza, ti fanno magari sentire parte della famiglia, ma tu percepisci che sei lì da esterno, da turnista. Questo è il destino di chi suona con tanti gruppi: dai il massimo, suoni con passione, ma sei sempre un ospite. Le decisioni, le dinamiche, sono già scritte e tu puoi solo adattarti a quello che trovi. Ho suonato in tanti dischi, in tanti progetti, ma spesso il mio nome è finito relegato a una riga nel booklet: “basso suonato da Walter”. Nessuna foto, nessun accenno visivo, perché il gruppo non ero io. È un po’ come entrare all’ottantesimo minuto di una partita: fai la tua parte, magari anche bene, ma il risultato lo decidono altri. Per alcuni sono stato un valore aggiunto, un nome “di prestigio”, perché con l’esperienza qualcosa ti resta, ma avere tante collaborazioni alle spalle ti insegna anche questo: che alla fine resti un comprimario. È una realtà un po’ triste, ma onesta e io la accetto per quella che è.
Quindi in questi progetti ti senti a volte solo, oppure di non farne mai parte del tutto?
Non soffro di solitudine, ma è esatto, è proprio così: è una condizione che non riguarda chi ha un proprio gruppo stabile, chi suona da sempre con le stesse persone. In quei casi sei parte integrante di un progetto: puoi anche sbagliare, fare delle scelte discutibili, ma resti comunque “uno dei loro”, perché sei dentro il processo creativo e relazionale da sempre. Io invece no. Io arrivo sempre da fuori e so che devo dare il massimo. Devo presentarmi in sala prove con i brani già pronti, studiati, assimilati. Non dico di doverli sapere meglio degli altri, ma quasi, perché sono l’ultimo arrivato e ogni errore pesa di più, si nota di più. Se entri in sala e sei quello che ha preparato meno, anche solo per una volta, vieni subito etichettato. Magari in certi gruppi non succede, ovviamente dipende dalle persone, dai contesti, non tutti sono uguali. Oppure ci sono anche situazioni ancora peggiori dal punto di vista umano. Una volta, ad esempio, mi è capitato di fare un’intervista radiofonica dedicata a uno dei gruppi in cui suonavo. L’occasione è nata all’improvviso, senza che io volessi, né che fossi preparato: ero a un concerto e una radio mi ha chiesto di parlare della band, così ho accettato e ho parlato del gruppo, con passione e rispetto. In seguito mi sono sentito dire che non avrei dovuto farlo, che l’intervista va fatta tutti insieme, che io da solo potevo rappresentare il gruppo, quindi che non avevo il diritto di parlare a nome loro. Ecco, queste sono situazioni che ti lasciano molto l’amaro in bocca e ti fanno sentire fuori posto, anche quando cerchi solo di dare visibilità al progetto. Però non sono uno che si abbatte facilmente, cerco sempre di capire le persone, i meccanismi interni, anche quando sono complicati. Tuttavia, non è semplice: quando suoni in tanti gruppi, ti ritrovi a gestire dinamiche diverse ogni volta e con il rischio costante di fare un passo falso. Alla fine, avere tanti gruppi è un po’ come avere tante suocere.
Beh, è una caratteristica abbastanza tipica dei bassisti: siccome ce ne sono numericamente pochi, è normale per un bassista avere tanti gruppi. Cambiando punto di vista, cosa c’è di positivo in questa storia? Perché comunque è un’attività che stai portando avanti da una vita, quindi ci sarà anche una parte di soddisfazione.
Se me lo chiedi sul piano personale, come forma di autovalutazione, devo dire che dentro di me entra spesso in gioco quello che io chiamo “effetto Pigmalione”. Nell’arte, il mito di Pigmalione rappresenta lo scultore che si innamora della sua creazione, ma poi, a forza di osservarla, inizia a vederne i difetti. Ecco, a me succede esattamente questo: quando finisco un lavoro, inizialmente ne sono entusiasta, lo trovo bello, sento di aver fatto qualcosa di buono, ma basta qualche giorno, qualche riascolto, e comincio a vederne solo i limiti, i difetti e così inizio a svalutarlo. Questo fenomeno, purtroppo, è amplificato anche dalla modalità con cui oggi viene consumata la musica, perché pubblicare un disco oggi significa lanciarlo in mezzo a centinaia di altre uscite quotidiane. In questo universo di uscite, il ciclo vitale di un brano o di un album è brevissimo: ha impatto per due settimane, poi diventa subito obsoleto e viene dimenticato. Per questo, se qualcuno vuole vendere un CD, un vinile o una cassetta, gli consiglio di promuoverlo con forza e costanza fin da subito, perché, dopo pochi giorni, anche l’interesse del pubblico cala drasticamente: la percentuale di persone che acquistano passa, letteralmente, da cento a due. Anche per me funziona così: creo un pezzo, lo registro, lo pubblico e nel momento dell’uscita mi sembra tutto meraviglioso. Poi lo riascolto e inizio a pensare che avrei potuto suonare in un altro modo, curare meglio certi dettagli, fare scelte diverse. Da parte degli altri, invece, ricevo spesso complimenti, molti sembrano apprezzare il mio modo di suonare. C’è però una frustrazione ricorrente: il basso, nelle produzioni a cui partecipo, è quasi sempre troppo basso nel missaggio, quindi io lavoro duramente sulle mie parti, poi scopro che non si sentono. È anche per questo che mi piace realizzare video dedicati al mio strumento, in cui metto in evidenza, nel mio piccolo, le linee di basso che altrimenti passerebbero inosservate. È il mio modo per restituire un po’ di dignità a un lavoro che, in molti casi, rischia di essere percepito appena.
Sono cose che dipendono anche dal modo in cui oggi viene ascoltata la musica
Si, ti faccio un paragone con l’arte: oggi la musica è diventata come visitare il Louvre… Ma puoi anche pensare alla tua città, Modena, dove c’è la Galleria Estense che è un piccolo Louvre: si possono vedere un busto del Bernini e un dipinto di Velázquez: due capolavori assoluti. Il problema è che quasi nessuno si ferma davvero a osservare, quasi tutti la attraversano come si attraversa un corridoio vuoto. Lo stesso succede con la musica: la gente corre, consuma in fretta, non si sofferma più. Un disco lo ascoltano al volo, una volta, poi finisce a prendere polvere, proprio come i cataloghi d’arte dimenticati sugli scaffali delle librerie. È proprio il mondo che è cambiato: tutto è diventato veloce. Lo ha capito bene YouTube, lo ha capito Instagram, che ormai puntano tutto sui contenuti brevissimi, istantanei. Nessuno ha più la pazienza di guardare un video di quattro minuti, figurarsi ascoltare un album intero. I ragazzi di oggi, quelli della “generazione del download”, come la chiamo io, ascoltano quasi solo frammenti, pezzi slegati. Il concetto stesso di album sta scomparendo e nel frattempo ci sono milioni di gruppi che pubblicano. È una cosa bellissima, intendiamoci, perché la musica dev’essere vasta, ricca, libera. Non bisogna limitarla, né scoraggiare chi crea. Il problema è un altro: una volta, con tanti gruppi in circolazione, emergevano i più bravi. Oggi, con un numero ancora maggiore di pubblicazioni, a emergere non sono necessariamente i migliori, ma quelli che hanno più visibilità o che si appoggiano alle giuste booking agency. Spesso, soprattutto nell’ambito dell’underground o dei gruppi emergenti, affidarsi a un’agenzia può portare ad avere maggiori opportunità di suonare, ma può anche portare a compromessi sulla libertà artistica o sui guadagni, se l’agenzia cerca principalmente il profitto e il punto è proprio questo: le agenzie stanno mercificando l’underground, il quale, per definizione, non è qualcosa su cui si possa fare profitto, perché è una realtà che già di per sé non vive di guadagni, quindi è un controsenso. Questa contraddizione ha portato il mondo musicale a un punto di saturazione: la vetta è stata raggiunta e ora si comincia a scendere, perché la gente non va più ai concerti, non compra più dischi, non ascolta più davvero. C’è un senso di stanchezza generale, ma una chiave di svolta, secondo me, sta cominciando ad emergere e, guarda caso, arriva da una band famosa che abbiamo menzionato prima: gli Archspire. Loro hanno fatto una scelta radicale e, per certi versi, molto punk: hanno lasciato la casa discografica major e hanno deciso di fare tutto da soli, proprio “do it yourself”. Si autofinanziano, si autoproducono, si auto-organizzano i concerti. Gli Archspire sono musicisti bravissimi, che potrebbero avere tutto quello che vogliono, ma si sono accorti che il sistema non va bene e hanno deciso di diventare imprenditori di se stessi e di promuovere il loro lavoro. Questa è una forma di maturità artistica enorme e, per me, è anche la strada giusta. Affidarsi a troppe figure intermedie ha creato un sistema marcio, un vero e proprio cancro. Tornare a una dimensione più diretta, più essenziale, più autentica, come suonare nei centri sociali, come autoprodursi, è forse l’unico modo per salvare davvero la musica.
Questa cosa che dici ha cambiato il tuo modo di essere musicista nel tempo?
Beh, l’enfasi e la passione che ho oggi sono sostanzialmente le stesse che avevo a vent’anni. Certo, forse ho meno rabbia dentro, sono più morigerato e anche un po’ più ironico, ma non mi sono mai sputtanato. Io non mi sento di aver mai tradito me stesso, ho sempre fatto tutto con il cuore. Ho iniziato suonando grind, e ancora oggi il mio cuore è totalmente grind, quindi non ho mai avuto motivo di vergognarmi di quello che ho fatto. Sin dall’inizio mi sono sempre posizionato in modo netto contro ogni forma di intolleranza, che fosse razzismo, omofobia o comunque violenza. Non ho mai parlato male di nessuno, sono sempre stato una persona abbastanza equilibrata. Quindi, l’attitudine da musicista che avevo a vent’anni ce l’ho ancora, ma senza schemi mentali rigidi, senza pregiudizi. Ho perso molti amici “buoni”, e sì, nella vita ci sono sempre degli stronzi, ma quelli non hanno colore, né religione, né appartenenza: semplicemente sono stronzi. Non sono mai stato uno che etichetta le persone e credo che questo mi abbia preservato da certi attacchi nel mondo della musica. Ho amici che hanno attraversato momenti bui nella loro carriera musicale, che hanno prodotto dischi di cui si vergognano, poi va a finire che si ritirano proprio perché, in un momento di smarrimento, hanno assunto atteggiamenti estremi e magari hanno voluto dare messaggi controversi, apertamente razzisti o di estrema destra. Dopo poco, però, spariscono dalla scena. Il mio soprannome, Wally Ache, l’unico che abbia mai avuto, mi è stato dato nel 1991 da un ragazzo di Parma. Intendo la città di Parma nell’Ohio, non Parma in Emilia. È stato il mio amico Steve Eggs, un matto totale con cui sono ancora in contatto, che ha unito il diminutivo americano di Walter, che è Wally, con il nome del mio primo gruppo, gli Ass Ache, da cui Wally Ache. Mi è piaciuto così tanto che lo porto ancora con me.
Stiamo parlando da più di un’ora… chiudiamo dicendo quali sono i tuoi prossimi passi, dove ti possiamo venire a vedere dal vivo?
Se qualcuno volesse vedermi dal vivo in un contesto dove riesco davvero a esprimermi al meglio, dovrebbe venire a un concerto dei Cerebral Extinction, con cui tra l’altro stiamo ultimando le incisioni per il nuovo disco. Dal vivo noi prendiamo il pubblico, lo travolgiamo, lo sommergiamo con una vera e propria ondata di intensità sonora e quello che spesso ci dicono è che magari il suono dal vivo non è perfetto, l’acustica può essere difficile, ma in tutta quella confusione, in quella cacofonia di rumore e caos, la precisione con cui suoniamo è esemplare. A volte può sembrare che non si capisca nulla, ma chi ci ascolta capisce che dentro le nostre teste tutto è calibrato, tutto è perfettamente sincronizzato. Questo, secondo me, è qualcosa di straordinario: significa che ci mettiamo anima e corpo e il pubblico lo percepisce, nonostante tutto. Come impegno, non solo come soddisfazione personale, credo davvero di dare il massimo con i Cerebral Extinction. I pezzi sono difficilissimi, davvero tosti, e te ne renderai conto tu stesso a novembre, quando suoneremo a Modena di spalla ai Pestilence…
… Walter questa è una bomba!
Si! Sarà il 29 novembre al Notte Tempio. Mi raccomando, venite perché sarà una serata storica…
Certo, allora aspettiamo il nuovo disco e il 29 novembre.
Infine, ci tengo a dire che non considero tutto quello che dico come oro colato. Sono sempre pronto a mettermi in discussione e ad ascoltare punti di vista diversi. C’è sempre qualcosa da imparare dagli altri, quindi, se qualcuno ha voglia di discutere o approfondire i temi di cui abbiamo parlato oggi, sarà sempre il benvenuto.
(Stefano Mazza)



Bell’articolo e lui davvero bravo. Perché non fate un’intervista a due bassisti fenomenali della scena grindcore: quelli di Antikult e Cripple Bastards ? Potenti, esperti, diversi tra loro ma di elevata caratura.Ciaooo
Albert
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