Sangue, fuoco, morte: FER DE LANCE – Fires on the Mountainside
Il precedente, The Hyperborean, era stato una discreta bombetta, che essendo arrivata dopo un esordio su Ep già rimarchevole, Colossus, non c’è che dire, faceva proprio pensare che avessimo trovato i prossimi paladini dell’epic più barbaro. E non avevamo ancora ascoltato una sola nota di Fires on the Mountainside. Ma quando abbiamo avuto in cuffia la prima anticipazione, il brano omonimo e di apertura dell’album, che dubbi volete che avessimo ancora. Tredici minuti che oggi rappresentano il meglio del meglio di quanto il fronte epic della nostra musica preferita abbia da offrire. Un brano fantastico per melodie manowariane, per incedere bathoriano, per le prove vocali e strumentali eccellenti, per l’arrangiamento perfetto, equilibrato tra la barbarie metal, i tratteggi elettroacustici, le sfuriate black e l’organo, signori, l’organo. Che, quando scende in campo dopo quattro minuti e mezzo di massacro più canonico, cambia proprio le carte in tavola, amplificando il lato gotico e macabro di un brano che rasentava già la perfezione. La crescita dei Fer De Lance da Chicago non poteva che essere gridata in maniera più eloquente, drammatica, vittoriosa, sanguinaria. Quell’aria terribilmente guerresca, ma lontana migliaia di miglia da quell’ottimismo stupidotto di certo power. Qui c’e gloria e puzza di budella, morti sia tra i nemici che tra le fila dei propri compagni. C’è un’aria di magia misteriosa, ancestrale, che non mitiga in nulla il dramma bellico e la gloria che puzza di morte (e no, non è un bell’odore).

Paragonare dischi e musica al cinema è un esercizio retorico comune, spesso scontato e banale. L’altra volta si citava The Northmen di Dave Eggers, solo per mettere in contrapposizione i Fer De Lance con l’ondata estetica viking-chic che infesta alcuni dei contesti più belli della musica più bella al mondo. Stavolta voglio tirare in ballo invece l’Excalibur di John Boorman, ma non in contrapposizione. Anzi. Quella violenza disperata, quella barbarie luccicante, quella inesorabile discesa verso caos e morte, il sacrificio ultimo, sopra l’acciaio insanguinato delle armature lasciate a terra e i cadaveri, sotto il sole morente, rosso sangue anche lui. Non mi viene in mente immagine migliore per sintetizzare anche Fires on the Mountainside, probabile candidato al titolo di disco dell’anno in campo epico. E forse non solo. Il salto di qualità vi sarà sicuramente evidente anche se non vi fermate a far ricominciare da capo la prima traccia ogni volta, appena terminata. Perché anche il resto dell’album resta su quelle coordinate tempestose.
Intanto i Fer de Lance hanno perso Mandy Martillo, che contribuiva con voci femminili e chitarre acustiche su The Hyperborean, e Collin Wolf degli Smoulder, in realtà presente solo in Colossus. Formazione a quattro, consolidata attorno ai due fondatori, MP (voce e chitarra) e Rüsty (basso), due fuoriusciti dai Professor Emeritus, band di doom piu ortodosso e convenzionale sempre di Chicago, appena riemersa di recente benché orfana dei due (e magari ne parliamo presto). Sono i due che si fanno carico anche di tastiere e chitarre acustiche, a questo giro, ma non tacciamo mica dell’ottimo solismo, spesso orientale, della chitarra di J. Geist o delle mazzate percussive di Scud. Il quartetto è davvero formidabile, ma visto che citiamo tutti non possiamo dimenticare Matt Russell alla produzione e Arthur Rizk (Eternal Champio, Sumerlands) al mastering. Se Fires on the Mountainside suona costantemente così duro, barbaro, violento, epico e caldo come lava, nonostante una paletta di suoni, stili e soluzioni comunque parecchio eterogenea, ne hanno un gran merito anche loro due.

Insomma, Fires on the Mountainside è un discone, un macigno, una colata di lava, un corpus unico. Non vi dico che tutte e sette le tracce sono sui livelli eccellenti della prima, ma ce n’è sicuramente un’altra che svetta altrettanto e che meriterebbe che ve la segnaste nei vostri annali personali del metallo epico. Si intitola Children of the Sky and Sea e, con un titolo così, non poteva che essere la più settantiana, quella che dialoga con quel mondo fantastico e divino, sotto l’arcobaleno che fa da ponte tra il paradiso e l’inferno. Un altro brano magnifico, più hard rock, sempre nordico, magico ed immaginifico. Roba da mandare in sollucchero estimatori di certo Nord, tipo Grand Magus (o Spiritual Beggars), ma “più tutto”: più duro, più roccioso, più barbaro, più innodico. Un altro brano fantastico a dir poco. Quindi, ecco, se penso di avervi trasmesso sufficientemente entusiasmo, provando però ad essere un poco obiettivi mi toccherebbe dire che la distanza tra questi due brani e gli altri (anche se tutti concorrono ad un’ascolto unico, fluido, senza cali di tono reali) è quello che non mi permetterebbe magari di eccedere in superlativi, sicuro di convincere tutti i defender là fuori. Però, davvero, che altro potete chiedere ad un disco. Davvero. Che disco, dai. Una curiosità: quello in copertina è il Vesuvio (Mount Vesuvius at Midnight , 1868, opera di Albert Bierstadt). E voi che pensavate fosse di sicuro un vulcano islandese. (Lorenzo Centini)

Capolavoro assoluto e sicuro disco dell’anno.
Sinceramente il precedente non mi ha mai fatto impazzire. Ho provato ad ascoltarlo nuovamente ma non c’è niente da fare. Non mi voglio però arrendere e ci tornerò sopra.
Questa uscita però davvero non me l’aspettavo.
La titletrack vince a mani basse ma a seguire le mie preferite sono The Feast of Echoes (finalmente un sentito omaggio a uno dei migliori album dei Black Sabbatth, il troppo spesso poco citato Headless Cross) e Children of the Sky and Sea (dove sento l’influenza dei Paradise Lost più goticoni e piacioni).
ps. aspetto un bell’articolo sui Professor Emeritus (e magari una divagazione sulla scena di Chicago) che con A Land Long Gone si piazzano appena sotto Fire on the Mountainside.
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Quella arriva, ma ti dico la verità, il professore a me non è garbato granché. Occhio invece agli Angel of Damnation, tedeschi però.
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Niente da fare, The Hyperborean continua a convincermi poco mentre Fires si conferma capolavoro e probabilmente miglior album del 2025.
A Land Long Gone continua a piacermi molto ma con gli ascolti aumenta il divario tra questo e Fires on the Mountainside.
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