Avere vent’anni: DREAM THEATER – Octavarium
Parlare di Octavarium proprio nell’anno di Parasomnia, disco con cui i Dream Theater sono tornati con la loro formazione “classica”, è per me molto peculiare, perché nutro un grande affetto per quest’album del 2005, fin da quando ne ho letto, prima ancora di ascoltarlo, sulle pagine del Metal Shock cartaceo, o quando ho letto la recensione “sbagliata” su un noto portale metal italiano che, per errore, recensì un disco solista di James LaBrie scaricato con un titolo farlocco. La recensione pubblicata su Metal Shock, del grande Fabione Loffredo, al quale ho lasciato tanti soldi nel glorioso Revolver, fu molto criticata all’epoca per quel dieci tondo tondo che gli affibbiò. E invece, per quanto mi riguarda, pur essendo oltremodo generoso, Loffredo ci aveva visto bene, perché Octavarium è l’ultimo album in cui i Dream Theater hanno cercato di fare qualcosa di diverso e, a distanza di anni – tallonato da Distance Over Time e A View From The Top of the World – resta il miglior album degli americani post 2001.
E ciò nonostante sia un disco lungi dall’essere perfetto e, soprattutto, manchi totalmente di coesione e sembri quasi una compilation di brani estratti da lavori diversi, frutto delle passioni del momento – e non solo – della coppia Portnoy/Petrucci: Muse, Pantera, U2 e arrangiamenti con archi. E solo a legger questi nomi si comprende agevolmente l’effetto “minestrone”. Eppure funziona, a partire dal terzo capitolo della 12 step suite, The Root of All Evil, che apre il disco con una coesione che mancherà totalmente nei due successivi “passi”. Un’apertura pesantissima e quadrata cui si contrappone la soave – e forse eccessivamente melensa – The Answer Lies Within, sorretta da un bell’arrangiamento per archi e che regala un’ottima interpretazione di LaBrie. Due brani agli antipodi che, in un certo senso, su uniscono nella successiva These Walls che non ricordavo così convincente e che ricorda molto i migliori momenti del primo disco di Six Degrees of Inner Turbulence.
Da questo momento in poi, i Nostri rinunciano a trovare qualsivoglia forma di baricentro nell’album, cambiando direzione di brano in brano in un modo che, nel bene e nel male, non avevano mai fatto prima, o dopo. E personalmente ho sempre trovato questa caratteristica incredibilmente divertente. Così si passa dall’irresistibile I Walk Beside You, che è a tutti gli effetti un pezzo degli U2 fine ‘80 con le chitarre più pesanti (e un richiamo per me esplicito a Surrounded nel prefinale, ma potrebbe essere una mia suggestione), ai Muse in salsa progressive della divertente e riuscitissima Panic Attack, aperta da un John Myung in grande spolvero, alla decisamente meno riuscita Never Enough in cui, in più di un passaggio, Matt Bellamy e soci potrebbero chiedere le royalties. Ma è anche questo il bello di quest’album: trasuda passione, quasi quella di un adolescente che scopre o riscopre gruppi per cui impazzisce e che tenta di replicare/inglobare nella sua proposta. E se c’è genuina passione – e comunque personalità – il risultato sarà comunque convincente. E, come se niente fosse, dai Muse si torna con Sacrified Sons, lunga ballatona per archi – ottima e ancora più convincente sul successivo live Score – che poi accelera in un notevole break centrale per poi giungere alla fine dell’album con la suite omonima che, senza giri di parole, è tra i migliori brani in assoluto dei Dream Theater.
Lo pensavo all’epoca e lo penso tutt’ora. Sin dall’intro gilmouriano, passando a quel flauto à-la Nino Rota, tutto trasuda grandiosità. Anche pacchiana, in alcuni momenti, ma pazienza, perché nei suoi venti minuti Octavarium contiene una summa dei migliori Dream Theater più votati alla melodia, che sono anche quelli che preferisco. E, sfruttando anche la componente orchestrale, i Nostri riescono anche a trovare soluzioni per loro “nuove”, seppur in un contesto solido e rodato quale quello della suite progressive. E ogni volta che, nella prima metà del pezzo, LaBrie canta – in un pieno crescendo orchestrale, prima che vengano espressamente chiamato in causa gli Yes – “As far I could tell, there’s nothing more I need / But still I ask myself could this be everything?”, non posso fare a meno di emozionarmi e di tornare con la mente ai miei vent’anni e a quel senso di invincibilità che hai solo in certi anni. Ma va bene così, anche adesso, anche solo guardando a ritroso certi momenti, con una nuova e diversa felicità che mi fa sorridere allo stesso modo.
Quindi grazie Octavarium, siamo cresciuti bene e grazie Fabio Loffredo: ci avevi visto bene. (L’Azzeccagarbugli)



D’accordissimo con L’Azzeccagarbugli: Octavarium é un grande album che, messo a confronto con alcuni lavori successivi e specialmente gli ultimi album, ne esce come un capolavoro.
La suite finale poi, ricca di richiami e arrangiamenti più prog rock che metal, è un un brano che va scoperto e assaporato un po’ alla volta, a più riprese.
Magari I DT attuali sapessero tirare fuori ancora un album così melodico e, in alcuni punti, raffinato e passionale invece dei minestroni tutti colorati ma insipidi a cui sono ormai dediti…
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Bah, ragazzi. Disco discreto, con buone idee e lungaggini. Di sicuro non mi entusiasmò, anche se rispetto al fastidio fisico che avevo provato con Train of Thought fu comunque una boccata d’aria. In ogni caso, visto che parliamo di migliori dischi post 2001, per me A dramatic Turn of Events lo piglia a pallate
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Dischetto mediocre. Non ricordo più chi ai tempi lo definì “poppettino hard che struscia ai Muse’, definizione ancora oggi perfetta. Soggusti
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L’ho consumato quell’album, ogni parola letta in questo articolo mi ha sbloccato ricordi annessi a quel periodo. Con mio sommo rammarico, ahimè, non andai a vederli a Roma per il tour del disco, mi feci convincere come un co****ne ad andare(sempre a Roma) a quello del disco successivo Systematic Chaos, di cui, ad oggi, io non ricordo una ceppa assoluta di quel concerto. 😒😒😒
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