Cordoni, Spaghetti & Caproni: la rassegna stocastica dei bassisti metal italiani #4 – Diego Banchero

Diego Banchero è un nome molto noto per vari motivi: prima di tutto perché è un musicista attivo da tantissimi anni e io ammetto di non sapere dirvi esattamente da quanto, ma sono sicuro che anche lui abbia perso un po’ il conto di tutti i progetti, di vario genere, a cui ha partecipato nel corso della sua vita artistica. Nella nostra benemerita redazione, uno che ne ha parlato tante volte è senza dubbio il Centini, nelle sue varie rubriche dedicate alla musica tenebrosa e sabbathiana. È, prima di tutto, un grande professionista della musica: compositore, arrangiatore, ingegnere del suono, produttore, ed è noto per il grande contributo che ha saputo dare al dark sound e al rock progressivo di tradizione italiana. Molti lo conoscono per essere il fondatore de Il Segno del Comando, la sua creatura più celebre, che unisce sonorità oscure e contigue alle colonne sonore horror a tematiche esoteriche e letterarie. Un tempo musica per pochi e sperduti appassionati, oggi ricercatissima e scopiazzatissima anche fuori confine. Il suo lavoro e le sue collaborazioni comprendono inoltre gruppi come Malombra, Zess, Egida Aurea e Il Ballo delle Castagne. Recentemente ha pubblicato l’album Gathered Lectures From a Lifetime con il suo Diego Banchero Trio, nel quale ha riletto in un’ottica personale alcune sue composizioni del passato e ha esplorato altre sonorità in chiave fusion, con incursioni in stili che sa padroneggiare benissimo come jazz, blues e funky. Ci avviciniamo così a quello che interessa indagare in questa rubrica, ovvero la sua interpretazione del basso: Diego Banchero è un bassista dallo stile molto distintivo, che coniuga groove, senso della melodia e profondità. Possiamo definire il suo stile bassistico come particolarmente narrativo: nei suoi accompagnamenti indirizza l’armonia e sostiene il ritmo, come ogni bassista dovrebbe fare, e contribuisce attivamente alla costruzione della tessitura sonora, usando linee di basso articolate e ricche. Il suo groove riesce ad essere molto presente ed espressivo, ma sempre al servizio del racconto musicale, evocativo ed efficace per l’orecchio dell’ascoltatore. Per raccontarvi meglio il personaggio e il musicista, ho deciso di incontrarlo e di scambiare alcune parole con lui sul nostro strumento preferito.

Foto di Giorgio Allemanni, 2023

Ciao Diego, benvenuto nella nostra rubrica dedicata a questo strumento che io definisco il più importante dell’universo. Cos’è per te il basso?

Il basso… Questa domanda mi coglie impreparato, anche se mi confronto col basso da più di trent’anni. Per me è stato un modo per avvicinarsi alla musica. Inizialmente mi ha affascinato il fatto che fosse uno strumento che nei gruppi era considerato per lo più gregario, ma che proprio per questo poteva riservare delle sorprese, se il bassista era particolarmente talentuoso. Se lo era e se si impegnava particolarmente, poteva renderlo principe, dargli una visibilità molto rilevante all’interno dell’insieme. Io poi ho iniziato a suonare soprattutto per l’amore di gruppi come Judas Priest, Black Sabbath

Ah, quindi nasci come metallaro?

Eh sì, nasco come metallaro. Dopo un periodo in cui avevo ripreso la chitarra, che avevo studiato all’età di dieci anni con un maestro del quartiere, ho deciso di mettermi a suonare uno strumento in un gruppo. Quando ascoltai quello che faceva Steve Harris, e quando compresi che al centro degli Iron Maiden ci fosse un bassista virtuoso, mi venne voglia di scegliere questo strumento.

Quindi, a parte Steve Harris e Geezer Butler, quali sono gli altri bassisti di riferimento per te?

Eh, sono tantissimi. Sempre nell’ambito heavy e rock una grande influenza per me è stato Billy Sheehan, che ho amato molto. Poi anche Stuart Hamm, che era il turnista di lusso di artisti come Satriani. Come dicevo, mi sono avvicinato alla musica grazie al metal, ma non ho trovato persone che condividessero la mia stessa passione per questo genere. Io però volevo suonare, per cui ho cominciato a mettere le mani sullo strumento e a integrarmi in gruppi di ragazzi giovani che facevano altri generi, oppure che non avevano nemmeno consapevolezza di che scelte artistiche fare, per cui andavano anche a braccio. Comunque questo mi ha portato a suonare il rhythm and blues, il rock più “antico”, tipo Rolling Stones, e così ho scoperto John Entwistle degli Who, un bassista che ho amato moltissimo, poi ho conosciuto bassisti blues maggiormente legati al passato, come Leo Lyons [dei Ten Years After]. Da lì ho iniziato un viaggio di ricerca nel quale ho “divorato” tutto quello che mi piacesse a livello stilistico e tutto quello che potesse arricchirmi come bassista. Mi è venuta la voglia di scoprire come venisse interpretato il basso nei vari generi e che potenzialità potesse dare in contesti diversi. Mi sono quindi avvicinato alla fusion, ovvero a Jaco Pastorius, Stanley Clarke e a tanti altri bassisti del mondo jazz moderno, e ho deciso di mettermi a studiare. Fino a quel momento avevo imparato da autodidatta, a parte le dritte che avevo ricevuto da qualche amico, di quartiere o di paese, in base a dove mi trovavo a vivere in quel dato momento. Dico questo perché tutta questa mia avventura musicale si è svolta in un paese del Piemonte dove andavo in vacanza, in particolare ho iniziato ad avere le prime band proprio lì e le prime lezioni le ho avute con Andrea Braido [polistrumentista, noto per aver suonato la chitarra con diversi cantanti italiani, ma anche con artisti internazionali come Markus Miller]. Come dicevo, successivamente ho deciso di studiare in maniera più sistematica e ho scelto una formazione di tipo jazzistico.

Perché hai scelto una formazione di tipo jazzistico e non, per esempio, classica?

La musica classica mi interessava meno, poi il basso elettrico non era ancora entrato nei conservatori, quindi mi sono iscritto alla scuola Jazz Quarto di Genova che in quegli anni era piuttosto prestigiosa, anche se poi è stata chiusa. Da lì ho iniziato ad apprezzare molto anche i contrabbassisti e ho studiato personalmente con Ray Brown, Walter Booker, un altro allievo di Ray Brown, Pierre Boussaguet. Poi amo moltissimo altri bassisti storici come Ron Carter e Paul Chambers. Arrivato a questo punto ho scelto di rinunciare a certe tecniche tipiche del basso moderno come lo slap e ho cercato di procedere come contrabbassista, infatti per un paio d’anni ho suonato il contrabbasso e mi sono avvicinato al be-bop e all’hard bop. Ho studiato con Aldo Zunino, Piero Leveratto, Rosario Bonacorsi in qualche seminario, poi ho fatto parecchi seminari di musica d’insieme con artisti internazionali come Jimmy Cobb, Albert “Tootie” Heath, Clark Terry, per cui è stato un periodo molto bello e formativo. Nei primi anni Novanta ho fatto il jazzista a tempo pieno. Passato questo periodo, mi sono concentrato maggiormente sull’attività di musicista, ho chiuso questa esperienza di formazione con i contrabbassisti e mi sono totalmente immerso nella composizione. Nel periodo successivo, per molti anni, ho fatto meno il bassista e più il compositore e, per scelte artistiche, ho lavorato su composizioni acustiche e sulla musica folk. Quindi scrivevo principalmente musica e suonavo il basso nei miei dischi. Ultimamente invece, da quando ho ripreso a fare rock progressivo, ovvero attorno al 2014, sono tornato a fare il bassista a tutto tondo, anche se l’attività di compositore per me rimane sempre centrale. Tornando alle mie influenze strumentali, posso citare certi bassisti funky o della disco anni Settanta.

Quindi intendi anche Larry Graham, Rocco Prestia…?

Si, ecco, a proposito di Rocco Prestia [dei Tower of Power], di recente ho suonato alcuni suoi brani e ho riscoperto la sua grandissima abilità tecnica. Quel tipo di linguaggio l’avevo già approfondito negli anni Novanta, anche su tante altre band funky e soul, in modo da capire come si potesse affrontare quel genere. Ho cercato di assimilare più stili possibile e mi ritengo un bassista multilingue.

Adesso ti vedi più come bassista, come compositore o come qualcosa nel mezzo?

Mi sento qualcosa nel mezzo: ho passato fasi in cui ho alternato queste due attività. Adesso ho molta più voglia di suonare il basso che di scrivere, ma perché nel corso della mia vita ho scritto tantissimo: mi sono avvicinato alle sessanta uscite discografiche. Inoltre mi è anche ritornato l’interesse per l’insegnamento, che per anni ho abbandonato perché ero troppo impegnato a fare dischi, in certi periodi ne facevo anche tre all’anno, il che comporta un grandissimo impegno. In questo momento mi piace dedicare molto più tempo allo studio e alla ricerca sullo strumento, mentre ho limitato alle strette necessità l’attività di scrittura e di composizione.

Da insegnante di basso, qual è la cosa più difficile da trasmettere agli allievi?

Penso che la musica sia un gioco di scatole cinesi: all’inizio può sembrare tutto lineare, ma ci sono parecchie difficoltà da superare, perché anche i semplici esercizi per i movimenti delle mani che si fanno fare a chi inizia a suonare sono delle basi importantissime per il futuro strumentista e come tali vanno curate. Ogni fase dello sviluppo di crescita e di apprendimento di un allievo presenta difficoltà diverse. Poi è piuttosto raro riuscire a insegnare nozioni melodiche e armoniche avanzate e vederle davvero applicate nella pratica. Non sono molti i musicisti, soprattutto in ambito rock, che riescono a spingersi fino a quel livello. Tuttavia, chi supera questo ostacolo, il quale rappresenta un traguardo tecnico e concettuale tutt’altro che semplice, potrà continuare a suonare rock, ma liberandosi di quei limiti, tanto concettuali quanto esecutivi, che si percepiscono in chi non ha affrontato certi studi. Ed è proprio questa differenza che, spesso, distingue un jazzista da un rocker.

Sei da sempre attivissimo, hai lavorato e lavori a tanti progetti diversi. Da cosa viene questa energia?

Penso di essere schiavo di un demone interiore che mi butta questo pepe, non si può dire dove… Per cui alla fine non mi sono mai fermato, probabilmente un giorno o l’altro stramazzerò al suolo, ma per il momento ho ancora tanta voglia di fare. Ho superato i cinquantacinque anni e voglio continuare. Ripeto che adesso ho molta più voglia di suonare che non di fare dischi, però ne devo fare ancora alcuni per chiudere determinati capitoli. Ho iniziato a fare qualche lavoro solista…

A proposito, parliamo del tuo lavoro in trio, dove sentiamo ottima musica, tanta creatività e ancora tanta voglia di raccontare. Come si colloca nella tua carriera di musicista? Quando hai capito che volevi un progetto tuo? Potresti raccontarci com’è nato?

Devo fare un passo indietro: a un certo punto, a metà degli anni Novanta, mi sono trovato di fronte a una scelta: se fare il jazzista a tempo pieno o se continuare un altro lavoro che amavo, ovvero fare riabilitazione in ambito psichiatrico. Alla fine ho deciso di mantenere questo lavoro, il che comportava di concludere gli studi universitari. Questa scelta mi ha ovviamente rallentato l’attività musicale, insieme alla necessità di fare altre formazioni specifiche di tipo clinico, che sono state impegnative, sia come tempo che come energie personali da investire. A quel punto ho deciso di lasciare indietro il mondo del jazz e ho iniziato a fare dischi, che fino ad allora non avevo fatto, di genere rock progressivo, con formazioni come Il Segno del Comando, Malombra, Zess, etc. Poi sono andato avanti con altre cose, molti progetti differenti, ma mi è rimasta la voglia di fare una musica che avesse anche una componente di improvvisazione, che fosse jazz tradizionale tipo bop, o jazz rock – fusion poco importava: mi interessava ritrovare quella libertà esecutiva che avevo trovato in quegli anni in cui avevo scoperto il bello di poter improvvisare. C’è da dire che le mie composizioni sono sempre state scritte in ottica di poterle riarrangiare anche in altri stili, per esempio in senso jazz-rock, magari riarmonizzate e senza il testo, per sfruttarne solo il tema. Non sono riuscito a realizzare questo sogno fino a due anni fa, quando con gli amici Roberto Lucanato e Fernando Cherchi, musicisti che mi hanno accompagnato per tanti anni [entrambi provenienti dalla formazione de Il Segno del Comando, ndr], ho deciso di reinterpretare alcuni nostri brani che si potessero prestare a una versione più fusion, in aggiunta ad altro materiale che avevo scritto e che abbiamo potuto usare. Così si è avverato quel sogno che sentivo da parecchio di avere e che a partire dal 2019 si era particolarmente riacutizzato. Mi era tornata la voglia di fare il bassista e avevo ripreso a suonare gli standard. Ho avuto la possibilità di tornare a fare jazz grazie a Rodolfo Cervetto, che è un batterista molto quotato a livello internazionale e con cui avevo studiato ai tempi della scuola Jazz Quarto. Abbiamo fatto serate di standard jazz con lui, durante il periodo di presentazione del suo libro che aveva scritto durante la pandemia [I suoni della vita. Tre racconti sul jazz. Il Canneto Editore 2023, ndr] ed è stata un’esperienza molto bella. Per cui mi sono ritrovato sia a suonare col trio, sia a fare standard. È stato un ritorno alle origini della mia formazione: se non proprio alle mie origini musicali in senso assoluto, per lo meno al periodo in cui ho iniziato a fare sul serio.

Torniamo un attimo a quello che dicevi prima, ovvero che dalla metà degli anni Novanta hai sentito l’esigenza di avvicinarti al jazz. Ricordo che in quel periodo molti musicisti compirono una scelta simile, sia tra i miei conoscenti sia tra professionisti di livello internazionale. Ti faccio un esempio di un bassista famoso: quando uscì Now (1998) di John Patitucci, lo ascoltai per la prima volta in un negozio di dischi della mia città e ricordo che, parlando con altri appassionati lì presenti, qualcuno commentò che il prog e la fusion erano ormai diventati territorio dei metallari. Così, sostenevano, molti musicisti che lavoravano in quei generi preferirono orientarsi verso un jazz più essenziale, più duro, quasi primordiale. Anche Patitucci in quel disco riprese molto il contrabbasso e fece un lavoro a metà tra be-bop e introspezione, quasi a voler segnare un distacco da quella scena che si era fatta troppo affollata e forse troppo contaminata. Hai avuto anche tu questa sensazione? Pensi che ci sia stata, in quegli anni, una sorta di reazione da parte di chi aveva fatto jazz o fusion per decenni, una voglia di radicalizzarsi per distinguersi da un certa corrente colta del rock e del metal?

Io in linea di massima ho sempre cercato di seguire generi musicali di nicchia, non ho la forma mentis di stare nelle correnti dominanti; nel mio caso ho sempre avuto l’idea di superare i miei limiti, quindi avvicinarmi al jazz è stato un modo per ampliare i miei orizzonti e non per evitare un genere temporaneamente inflazionato o per mettermi al riparo da un’eccessiva visibilità. Semplicemente, volevo migliorare e, siccome certi bassisti jazz erano più bravi e interessanti degli altri, ho cercato di imparare da loro. Quando in seguito sono tornato a fare rock, per esempio con Il Segno del Comando, ho cercato di mantenere un approccio tipicamente jazzistico nelle parti soliste, ovvero lasciare che i musicisti si esprimessero con improvvisazioni spontanee e lunghe a piacere. Tornando al discorso di prima, io ho sempre avuto una costante voglia di colmare delle lacune e di sentirmi meno inadeguato, perché la sensazione che ho sempre avuto, e che ancora percepisco, è di avere dei vuoti musicali da riempire. Quello che ho cercato di fare è di colmarli studiando e interessandomi a tanti generi. Ho scelto di studiare il jazz per cercare di impararlo e diventare così più musicista in senso completo del termine. C’è anche da aggiungere che, a quei tempi, se non si studiava al conservatorio o comunque se non si entrava nell’ambito di una musica “colta”, sia a livello professionale che di famiglia venivi considerato poco credibile, sempre un ragazzino che vuole fare casino e non un musicista che si esprime con generi diversi. Per cui è stato anche una possibilità di rivalsa in questo senso: per quanto io continui a fare rock, voglio essere un musicista completo. C’è inoltre un aspetto più personalmente artistico, ovvero che quando ho ampliato le mie conoscenze sia teoriche che strumentali, ho assunto la capacità di esprimere la mia passione liberamente, riuscendo a trasferire immediatamente la mia idea musicale in quello che scrivevo, senza quella difficoltà che ci può essere quando non si padroneggia bene la tecnica o la conoscenza teorica.

Di recente mi sono trovato a parlare con Antonio Polidori, che tu ben conosci, di prog e di dark sound, mondi ai quale anche tu appartieni. Cosa ne pensi dello stato attuale di questi generi così italiani e così particolari?

Penso che oggi stiamo assistendo a una grossa rinascita di questi generi, che vengono riscoperti e stanno funzionando, soprattutto grazie alla vicinanza con l’ambito metal. C’è un terreno molto fertile e le cose stanno andando decisamente meglio rispetto a quando ho iniziato io. Ai tempi della nascita de Il Segno del Comando, le band che si muovevano in questo ambito erano poche, e il cosiddetto “dark sound” non era ancora stato sdoganato come oggi. Non parlo della dark wave, che si occupava di altre cose, ma di quelle sonorità più vicine al prog contaminato con atmosfere oscure e da colonna sonora horror. All’epoca il prog, specialmente il dark prog, era considerato superato, fuori moda, era visto come un genere da sfigati. Oggi invece, in quell’incrocio con il metal, o anche semplicemente con il pubblico dei metallari, stanno emergendo band molto valide, con un buon seguito. È ancora un circuito underground, certo, ma si tratta di un underground estremamente vitale.

Una cosa che mi interessa molto: tu che hai lavorato su vari generi, come vedi il legame fra la musica contemporanea e i nostri generi, quindi il metal, il prog, il dark sound? Ci sono dei punti di contatto?

Forse oggi esiste qualche punto di convergenza in più tra i generi e una minore compartimentazione rispetto al passato. È un cambiamento che deriva, da un lato, dall’aver attraversato una crisi generale e, dall’altro, dall’essere arrivati a un punto molto avanzato dal punto di vista espressivo e creativo. Oggi tutto è più accessibile, anche per il pubblico. Un tempo i confini tra i generi erano molto rigidi, sia per i musicisti che per chi li ascoltava. Ora invece siamo cresciuti con una maggiore varietà di suoni nelle orecchie e con una visione meno dogmatica: l’idea di mantenere una rotta incontaminata e senza compromessi ha perso forza. La contaminazione tra generi è qualcosa che continuo a osservare e non è una tendenza recente: le prime avvisaglie si vedevano già verso la fine degli anni Novanta.

Quanto è cambiato il tuo modo di essere artista nel tempo? La tecnologia ha cambiato il tuo modo di pensare la musica o di suonarla?

Da un lato non sono troppo appassionato di tecnologia. Pensa che, sinceramente, preferirei avere un amplificatore con tre potenziometri, un tasto solo e il basso infilato con un jack… Anche se è vero che ultimamente col trio ho usato qualche effetto per avere un suono un po’ più acido, ma non sono mai stato un maniaco dell’elettronica. Un discorso a parte riguarda l’uso del computer per comporre: io sono stato tra i primi a utilizzarlo per fare musica, già negli anni Novanta. All’epoca lo si impiegava soprattutto per pilotare il MIDI, anche se le registrazioni avvenivano ancora in analogico. Da lì ho iniziato ad avere un computer a casa e a scrivere direttamente in MIDI: è da allora che uso abitualmente questa tecnologia. Ho lavorato anche come fonico e come ingegnere del suono, quindi la componente tecnologica ha avuto un’influenza molto forte sul mio percorso. Ho studiato e sperimentato su ogni tipo di macchina disponibile, approfittando anche delle opportunità di apprendimento offerte dalla rete man mano che internet si sviluppava. Oggi tutto questo, ovvero imparare e sperimentare, lo si fa in tempi molto più rapidi. In fondo, non è cambiato molto in termini di contenuti rispetto a ciò che facevo prima del web: la differenza è che oggi posso fare le stesse cose con molta più comodità e facilità.

Una domanda da divano: c’è un album o un brano della tua carriera a cui sei particolarmente legato?

Ho un po’ di difficoltà a rispondere, perché in realtà ce ne sono tantissimi… ci sono brani che amo molto come composizione, ad esempio le ballad Il Congedo per gli Egida Aurea, in La mia piccola Guerra; Ofelia per Il Segno del Comando, ne Il Domenicano Bianco; Nel Labirinto Spirituale che appare ne L’incanto dello Zero, così come Il Mio Nome è Menzogna, uno dei miei brani preferiti degli ultimi anni. Poi i brani portanti de Il Domenicano Bianco, perché in quell’album penso di essere riuscito a realizzare una musica horror personale, ma che non fosse derivativa dalle lezioni dei maestri del passato, come i Goblin. A parte le ballad, l’approccio di questi brani è piuttosto originale.

A proposito, ci vuoi dire in breve a che punto sono i tuoi progetti collaterali, come Il Ballo delle Castagne ed Egida Aura?

Egida Aura è un progetto chiuso da tempo, perché la scena in cui si muoveva è parecchio implosa, poi ci sono state anche separazioni personali, per cui a maggior ragione il gruppo è definitivamente sciolto.
Il Ballo delle Castagne invece riapparirà: abbiamo fatto un nuovo lavoro che verrà concretizzato in uno split con Il Segno del Comando. Io ho collaborato, ho dato una mano a scrivere e ho suonato il basso in un brano, ma il progetto è sempre gestito da Vinz Aquarian che vive a Vienna.
Sto cercando di portare avanti Il Segno del Comando, per il quale ci sarà a breve uno split coi genovesi Expiatoria e quindi, concluso questo, ho potuto dedicarmi a scrivere l’altro lavoro insieme al Ballo delle Castagne. Proprio in questi giorni sto scrivendo i testi.

Cosa consigli ai giovani bassisti?

Di affidarsi a un insegnante, che possibilmente abbia affrontato e superato concretamente i problemi della vita da musicista. Ci sono molti insegnanti validi, competenti sul piano tecnico, ma che magari non hanno mai dovuto risolvere questioni legate allo stile personale, all’originalità, o alla capacità di tradurre nella pratica ciò che si è appreso sui libri o in studio. Secondo me questo aspetto è fondamentale. Quando ci sono riuscito io, ho dato una grossa svolta alla mia carriera: mi ha permesso di uscire da una dimensione artigianale e di iniziare a integrare tutti quegli elementi che prima erano troppo frammentati o scollegati fra di loro.

[Un grandissimo ringraziamento a Diego Banchero per questa sua preziosa testimonianza di bassista e musicista di vari mondi, che speriamo prosegua a lungo ininterrotto in questo suo percorso di continua esplorazione, sempre con un basso a tracolla] (Stefano Mazza)

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