Avere vent’anni: LIMP BIZKIT – The Unquestionable Truth (Part 1)

“Se ad un certo punto nel futuro dovessi rientrare nei Limp Bizkit sarebbe solo per una questione di soldi”. Queste più o meno le parole di Wes Borland all’indomani della sua separazione dal gruppo. Nel periodo successivo per il gruppo c’è un solo album (Results May Vary: più che un titolo un eufemismo), registrato con un tizio a caso alla chitarra e poi un notevole calo di popolarità. Ed ecco quindi nel giro di cinque anni rientrare il figliol prodigo, probabilmente a causa di un divorzio poco amichevole o chissà che serie di investimenti sbagliati. La mossa non si rivelerà poi così economicamente saggia, perché The Unquestionable Truth (Part 1) va male al punto che la parte due non vedrà mai la luce.

Però erano proprio i presupposti ad essere sbagliati: TUTP1 (abbrevio perché sì) nasce per essere l’album della vera rinascita artistica dei Limp Bizkit; di più, vuole essere l’album della ritrovata integrità, l’album barricadero. Qui partono le risate di sottofondo come nelle sit-com americane. Quindi copertina a metà tra un flyer e un poster di propaganda sovietica, artwork minimale integralista con manco una foto. I titoli tutti di due parole: The Questo, The Quello, The Quellaltro. Dj Lethal semiassente. Produzione ridotta, nessun grande ospite del sabato sera come da tradizione. E poi invettive contro il sistema, i media, il consumismo, i preti. Il risultato è una sorta di versione scrausissima dei Rage Against The Machine (citati peraltro come fonte di ispirazione principale) senza averne né i mezzi, né la storia.

Insomma, un delirio. Ma la cosa davvero strana è che non me lo ricordavo così male, tutt’altro. Probabilmente è dovuto al fatto che avevo appena cominciato a lavorare, con quei soldi mi ero comprato un Ipod 20 Gb ed ero andato via di casa. Mi sa che la mia vita era bellissima. In ogni caso non abbastanza per giustificare quello che è obbiettivamente, anche solo dal punto di vista concettuale, un obbrobrio. Peggio, una cosa ridicola. Nel mazzo salvo giusto un pezzo finalmente un po’ coatto (The Story), che peraltro è poi una volgare accusa al glorioso canale televisivo E! Entertainment che nel corso degli anni ci ha regalato perle come le KardashiansBotched Fashion Police.

Ma torniamo a TUTP1, un album in cui troviamo momenti di imbarazzo che sono difficili anche da raccontare, fra questi necessario citare almeno il secondo pezzo (The Truth) che potrebbe anche essere la canzone migliore del disco fino a che a un certo punto Fred Durst si mette a recitare il Padre Nostro. Non credo ci sia molto altro da aggiungere. Forse anche meglio si fa appena dopo con The Priest, lunga recriminatoria contro il clero pedofilo condito da una sorta di una seduta di autocoscienza di Durst che, dichiarandosi sotto l’effetto dell’assenzio (come i poeti maledetti!), mette in piazza le sue paure, i suoi deliri e paranoie. Momenti magici, vorticosi. Una cosa talmente allucinante che rischia di essere avanti. A livello di delirio siamo dalle parti di Lulu (anche qui senza mezzi né storia a giustificare il niente). Forse tra cento anni ne scriveranno come un capolavoro irraggiungibile. Avevamo tutto e non lo sapevamo. (Stefano Greco)

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