Volevamo essere i King Crimson (ma cattivi): IMPERIAL TRIUMPHANT – Goldstar
Ci sono band che hanno una visione cristallina di quello che vogliono realizzare, una visione che, andando al di là di un singolo disco, riesce ad abbracciare più lavori finendo per incarnarsi in una vera e propria estetica, contribuendo a rifinire uno stile nuovo e ben identificabile. Gli Imperial Triumphant appartengono senza ombra di dubbio a questa categoria e la loro visione, quella che al momento attuale culmina proprio con il lavoro appena pubblicato, Goldstar, per quanto mi riguarda ha cominciato a prendere una direzione precisa dalla pubblicazione di Vile Luxury (2018), recentemente ripubblicato in una ottima versione 1924 redux.
Goldstar, pubblicato a tre anni di distanza dal precedente, e pregevole, Spirit of Ecstasy e che segue un indovinatissimo mini-EP di cover (la cui setlist comprende Rush, Metallica, Dizzie Gillespie, Wayne Shorter e Radiohead), arriva a confermare quelle che, dopo una carriera ormai più che decennale, non sono più solamente sensazioni.
Diciamolo subito, credo che il disco sia il lavoro più maturo del trio di New York, e proprio dalla città di New York è ispirato. Sin dalle prime battute, infatti, si rimane colpiti da come la musica sia qui il veicolo per narrare il tessuto storico-culturale della metropoli statunitense in un periodo storico collocabile tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ma che trova connessioni profonde anche con il nostro tempo. Questa sensazione in realtà si ha ben prima di premere “play”, evocata dall’illustrazione di copertina: sembra essere ispirata, allo stesso tempo, dai murales di Gustav Klimt e dai poster promozionali del film di Metropolis, quelli in cui l’androide, l’uomo-macchina (o meglio la donna-macchina, surrogato di Hel, madre del protagonista del film) svetta, scintillante e terribile, tra le linee squadrate della mirabolante e modernissima città del futuro. Del resto New York, alla fine degli anni Trenta, vede il completamento del Chrysler Building. In piena crisi economica, con milioni di esseri umani per strada, come topi, a pagare lo scotto del crollo di Wall Street, viene costruito il più alto edificio (almeno, sino ad allora) mai concepito dall’uomo.
Questa contraddizione non è per niente inaspettata. Come sa ogni appassionato di shell-shock cinema, come è stato recentemente – e convincentemente – ribattezzata l’esperienza filmica europea degli anni Venti e Trenta del Novecento, la “felice” modernità può essere preservata solamente a costo di rimuovere, da qualsiasi tipo di orizzonte, una larga fetta di umanità. La più consistente, anzi. Ecco il “disagio della civiltà” freudiano, il desiderio di eccesso sino all’auto-annichilimento, il magma dell’inconscio, come anche il cinema di Murnau voleva sottolineare. E del resto il cinema, la “settima arte” che nei Roarin’ Twenties era appena nata, sembra rivestire un ruolo importante per la musica degli Imperial Triumphant, un serbatoio di immagini e sensazioni non eludibile: “We’re not trying to rip off Handel, we’re trying to rip off Stanley Kubrick!”.
Del capolavoro di Fritz Lang, Goldstar riprende dunque, in un certo senso, anche i temi sociali, oltre all’estetica, riformulandoli però da una prospettiva differente. Il regista, infatti, permea Metropolis di un’aura di misticismo cristiano, intrecciandola con le tutto sommate positive visioni socialiste ampiamente diffuse, anche in Germania, nell’epoca della Repubblica di Weimar; un elemento che, invece, risulta del tutto assente nel disco degli Imperial Triumphant. Qui sopravvivono solamente il lusso sfrenato e la lussuria, il degrado, l’eccesso sordido patinato d’oro a ventiquattro carati, il caos, ma servito da un bartender in livrea. A New York i signori del mattone facevano a gara a chi ce l’aveva più… alto. Facevano? Negli anni Venti? Ma scusa, e The Donald che ha fatto ancora negli anni Novanta? E quella statua d’oro a Gaza?
Ritrasportare il mood interbellico del Novecento negli States, volontà che si palesa a partire dalla scelta proprio del Chrysler Building come location del video del singolo promozionale (Lexington Delirium), significa non solamente rievocare il gusto dell’epoca, ma anche ricombinarne anche gli elementi artistici, specialmente musicali, come ricordano gli stessi membri della band in una recente intervista (parafrasando: l’avantgarde che incontra gli anni Venti, fondendosi con il jazz anni Sessanta e Settanta, con l’Art Rock degli Ottanta, con il Death contemporaneo).
Un progetto ambizioso, quindi, ma che a conti fatti risulta, alle mie orecchie, decisamente riuscito. C’è da dire che il trio vanta una invidiabile esperienza musicale, fatta di militanze in band tutt’altro che metal, ma che con la musica estrema ha avuto diversi flirt. Qualcuno proviene dal mondo della salsa portoricana, ma ha suonato anche con John Zorn (NEWYORKCITY, pezzo da quarantacinque secondi a metà del disco, mi ha ricordato molto le performance di Yamataka Eye – Naked City – o il miglior Mike Patton – 9×9, sempre con Zorn e poi con Marc Ribot, Joey Baron e Trevor Dunn). Altri bazzicavano una scena sicuramente viva ma non certo mainstream come quella del Gypsy Jazz quando ancora non era di moda – se lo è mai stato: a parte la roba di Django Reinhardt, che chiunque abbia un minimo di cultura musicale conosce, chi ha mai ascoltato Gypsy Jazz?
Questi tre non hanno solo “velleità” jazzistiche, ci hanno sguazzato dentro, al jazz, e soprattutto hanno fatto tesoro della sua capacità principale, quella di saper integrare e fondere tradizioni musicali lontane anni luce (un recente ed approfonditissimo studio di Alyn Shipton, Nuova storia del jazz, che per quanto mi riguarda ha il valore di una bussola preziosissima, spende molto tempo nell’argomentare che il jazz non proviene, come tradizionalmente sostenuto da mezzo mondo, dai workin’ chants o dal blues, ma sin dal principio è qualcosa di quasi integralmente ibridato, mischiato). La presenza di Dave Lombardo e di Thomas Haake come ospiti del disco capite bene che punta verso la stessa direzione.
A me questa roba piace. Piace assai. Non voglio fare paragoni azzardati però a me, questi, sembrano i King Crimson. Ma cattivi. (Bartolo da Sassoferrato)




