Once upon a time in Norway #24 – Metti una sera i Mortuary Drape a Oslo
La prima esibizione norvegese dei Mortuary Drape da dieci anni a questa parte arriva alla chiusura di un bel festival ad alto tasso trucido che va sotto il poetico nome di Orgium Satanicum. Sebbene i prezzi non siano popolari, da quattro-cinque anni gli organizzatori portano a Oslo il meglio dell’underground black metal mondiale, e a loro vanno quindi la riconoscenza e i soldi del metallaro appena ripresosi dai bagordi di Capodanno. Per un motivo o per un altro, però, ho seguito solo due concerti di tutto il festival, vale a dire i Doedsmaghird e appunto i Mortuary Drape, di cui vi dirò in seguito. Un peccato, certo, uno spreco di soldi, anche; ma a volte a ridurre all’osso si riescono a mettere a fuoco le cose veramente importanti. Andiamo con ordine.
I Doedsmaghird, terzultimi in scaletta nella serata conclusiva del festival, sono una stranezza che aspettavo di vedere dal vivo per capire meglio. Secondo la biografia sono un progetto parallelo di Vicotnik dei Dødheimsgard, e secondo l’anagrafe sono la stessa band, almeno dal vivo: sul palco salgono tutti i membri del gruppo principale. Lo stesso Vicotnik li presenta come “fratellastri” dei DHG, e viene da chiedersi che bisogno ci fosse di chiamare lo stesso gruppo con due nomi simili ma diversi al tempo stesso. All’atto pratico, i DHG of Fire non suonano così diversamente dai Luca Turilli’s DHG; e la giustificazione secondo cui la band secondaria avrebbe voluto seguire un percorso più old style rispetto a quella principale mi sembra abbia le gambe piuttosto corte.
Al netto di quanto sopra, a me sembra che i DHG (in qualsiasi forma) continuino a tenere botta e a sfoggiare un tiro invidiabile, vista l’età anagrafica ed artistica del progetto. Gli estratti dal nuovo e per ora unico disco si mantengono su livelli piuttosto alti e godono della mai troppo sopravvalutata capacità di Yusaf/Vicotnik nel non prendersi troppo sul serio; la mise della serata, in completo a scacchi dorati, mette subito in chiaro le cose, e il folto pubblico intergenerazionale (ci torneremo) pare apprezzare.
Per quanto riguarda i Mortuary Drape, non starò ad ammorbarvi ancora sul mio attaccamento alla loro opera e sul significato che ha avuto per la crescita intellettuale del piemontese trapiantato in terra straniera. Mi rendo anche conto che il mio discorso sulla loro italianità e il loro approccio terroso e artigianale è più che superato, alla luce di una quindicina d’anni almeno di professionalizzazione della band, che l’ha portata in giro per il mondo, e a un contratto con una grossa etichetta come la Peaceville.
Insomma, non dovrebbe proprio sorprendere che siano headliner di un festival medio-piccolo come questo, e che dischi come Black Mirror mostrino una maturità artistica invidiabile e una resa sonora finalmente professionale, senza che il sound originale si sia snaturato. Il rovescio della medaglia, per chi è legato a certe atmosfere e a certe sonorità, è che da circa vent’anni a questa parte (da Buried in Time, insomma) i Mortuary Drape suonano troppo meglio (sic) di quanto dovrebbero; è una presa di posizione ottusa e dinamica quanto lo sbarco di Vittorio Feltri su TikTok, ma faccio gran fatica a uscirne.
Quello che sorprende dei Mortuary Drape anno 2025, quindi, è la scelta di focalizzare la scaletta del concerto sui grandi successi del passato; posso sbagliarmi, ma lo show non era stato annunciato a tema amarcord. Durante la serata gli estratti da Black Mirror sono un paio, uno solo (mi pare) da Spiritual Independence, nessuno da Buried in Time. Tutto il resto è saccheggio da All the Witches Dance, Secret Sudaria e Tolling 13 Knell, senza dimenticare i gloriosi EP degli esordi. Chiaro che per chi scrive sia stato un vero spasso, e che mi sono spellato le mani; ma faceva impressione vedere la sala, ecumenicamente piena di due-tre generazioni di metallari, svuotarsi gradualmente durante il concerto di chi era stato chiamato per chiudere in bellezza la serata.
Perle ai porci? Problemi di una generazione che conosce solo la discografia più recente della band? Difficile a dirsi. Tanto vale, quindi, concentrarsi sugli aspetti positivi: la felicità di aver contribuito a finanziare una rarissima apparizione dei propri eroi sotto casa, a migliaia di km dal tetto natio; i sorrisi da un orecchio all’altro di attempate signore che scapocciavano al ritmo di Primordial; l’accento del basso Piemonte riconosciuto nelle parole di canuti rockers (roadies della band? Expats mai incrociati?) che fumavano una sigaretta nella neve del dopo concerto. Immagini care per qualche istante, sarete presto una folla distante, diceva Georges Brassens rivisto da De André; ma i fantômes du souvenir sono una delle poche consolazioni rimaste al nostro tempo. (Giuliano D’Amico)

Articolo molto bello, grazie Giuliano!
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