DEATH SS @Viper Theatre, Firenze – 11.01.2025

A Firenze siamo cresciuti col mito dei Death SS, quasi fossero un’entità pervasa da un palpabile misticismo. Penso che questa percezione si sia persa, pezzo dopo pezzo, a partire dall’uscita di Panic. Il cambio di line-up, il cambio di look, e non di meno il cambio di stile musicale, fecero sì che ci accorgessimo che in fondo i Death SS non erano che una band heavy metal. E poi stavamo diventando grandi, un aspetto che contribuì a fare il resto. All’epoca Steve Sylvester era un navigato artista sulla quarantina.

Credo che ieri coloro che riempivano fino all’orlo il Viper Theatre lo potessero sentire come ai vecchi tempi, quel misticismo. O chiamatelo come preferite. Il motivo non risiedeva nel fatto che una platea di quarantenni e cinquantenni – un pubblico assai più anziano rispetto a quello cui il Firenze Metal, presso la stessa sede, ci aveva sinora abituato – fosse sprofondata nell’occulto. Molto semplicemente i Death SS non suonavano a Firenze e dintorni da troppo tempo. Steve Sylvester in passato deve aver capito la lezione: suonò al Tenax all’uscita di Panic e fece il pienione; suonò altre date, fra cui in location ridimensionate tali e quali al Siddharta di Prato – quanto mi manchi – e non riuscì minimamente a riempire quei luoghi. Il concetto non era che i Death SS fossero morti. Il concetto, applicabile ai Domine e a molte altre formazioni definibili locali, era che se suoni troppo spesso in zona, alla fine, a vederti ci saranno soprattutto addetti ai lavori, accreditati e amici di amici. Mi auguro, ora, che l’affluenza al Viper Theatre nonostante una biglietto tutt’altro che economico, spinga Steve Sylvester a non attendere un altro decennio prima di ripresentarsi sul palco in terra toscana, il che sarebbe un atroce danno per tutti noi.

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Ph: Marco Belardi

La scaletta, lo sappiamo, era previsto ricalcasse il vincente format in onda al Metalitalia Fest di Trezzo sull’Adda, dello scorso settembre. In sostanza, due concerti distinti uno dei quali con l’attuale formazione, l’altro con quella che all’epoca incise In Death of Steve Sylvester. Più o meno quella, che ricordiamo come un mix di musicisti finiti poi nei Sabotage, nei Domine o altrove. L’unico assente è Andy Fois, rimpiazzato da Andy Panigada, chitarrista dei Bulldozer nonché collaboratore di vecchia data con i Death SS. L’attuale formazione, consolidata dopo lo split con Al De Noble e gli altri, è risaputo essere un misto di membri di Distruzione e appunto Bulldozer. Più, naturalmente, Freddy Delirio alle tastiere.

Avevo visto il Viper Theatre così stracolmo al concerto di Yngwie Malmsteen. Fuori la gente s’era ridotta a parcheggiare sul prato, che, considerando come si riduce non appena fanno due gocce, avrebbe fatto tornare un sacco di metallari a casa con Uber se solo si fosse messo a piovere. È un fatto di sentimentalismi provinciali: organizza un concerto con gruppi interessanti e che al momento portano pubblico, e porterai pubblico. Organizzane uno con qualcuno che i fiorentini adorano, e non saprai più dove mettere coloro che hanno staccato il biglietto. A Firenze la gente adora Malmsteen, che, magari, qualche chilometro oltre Secchieta e la Consuma, è considerato a ragion veduta un virtuoso buzzurro che accumula Ferrari e Stratocaster.

All’arrivo sono subito stato ravvisato da alcuni presenti che nel pomeriggio c’erano stati problemi tecnici, il che andava alimentando il consueto mormorìo circa la sfiga che all’apparenza attanaglierebbe il gruppo sin dai lontani anni Settanta. Ormai a quei discorsi ci sono abituato; insomma, me ne stavo lì bello e buono a sentire discorsi su una presa da 32 ampere che non aveva retto il sovraccarico, e facevo beatamente finta di nulla. Poi ho osservato sornione l’ottima scenografia, comprensiva di cannoni spara coriandoli, uscite per fuochi d’artificio e quant’altro.

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Ph: Marco Belardi

Il concerto è cominciato con un certo ritardo. Ho subito notato come la line-up attuale avesse un look a metà fra quello ammodernato dell’era Panic e un non-so-che di cyberpunk, post-apocalittico e tutta quella roba lì. Mi è sostanzialmente piaciuto, anche se sposta il tiro in direzioni lontanissime dal semplice e banale concetto di “orrorifico” che da loro pretendiamo.

Let the Sabbath Begin subito, un classico sin da quando è uscita nel lontano 2000 – ricordo il meet ’n’ greet con i fan al sottopassaggio della stazione di Santa Maria Novella, alla Super Records, e subito ho i lucciconi – poi l’accoppiata da Black Mass con Cursed Mama e Horrible Eyes, poi tantissimo Heavy Demons con Where Have You Gone e l’immancabile inno power metal Baphomet per poi spostarsi da tutt’altra parte, celebrare i tempi “moderni” con Baron Samedi e Zora, e ritornare al monumento del 1991 con la sua conosciutissima title-track. 

I giochi pirotecnici per un momento hanno lasciato ricadere alcune scintille sul mio zaino, in prima fila davanti alla transenna, ed è stata una fotografa a spegnermi prima che diventassi brace viva: naturalmente erano le fontane fredde sparkular, la cosa ha fatto più effetto sulla carta che all’atto pratico. Le performer hanno cacciato fuori le tette, allucchettando a una catena un obeso nudo con la schiena completamente pelosa, accennando poi a lesbicare. Il pubblico ha gradito, qualcuno non capiva, qualcuno si tratteneva dal prendere a scappellotti coloro che non gradivano. Poi è partita Heavy Demons e mentre tutti la cantavano a squarciagola, la presa da 32 ampere o chi per essa floppavano clamorosamente, e ci lasciavano all’ascolto della sola batteria acustica, non più microfonata, di Unam Talbot. Che essendo di origini venete avrà anche lui bestemmiato. La ragione è stata con certezza l’accensione repentina di uno scaldabagno, un forno ventilato con grill a 240 gradi e un asciugacapelli con diffusore in qualche stanza del Viper Theatre. Certamente non i cannoni per i fuochi artificiali che a momenti mi incendiavano lo zaino con dentro gli obiettivi della Sony.

Il concerto collassava su sé stesso. Steve Sylvester riprendeva le due tizie, ora semi nude, e le inviava in prima fila come soldati di trincea del 1917, a lanciare qualcosa al pubblico. Parevano ostie, o forse biglietti da visita tipo quelli che ti comprerebbero l’auto con contante subito. Nessuno stava più ascoltando una sola canzone, nessuno stava più rimuginando sul fatto che non avessero suonato Family Vault o Scarlet Woman, ma erano tutti contenti come Pasque. Se un giorno Elon Musk brevetterà una app per permettere alle mogli di visionare i mariti ai concerti heavy metal sarà un bel casino, o, più semplicemente, sarà la fine dei concerti metal. Tutti a cercare lavoro: fonici, tecnici delle luci, e pure coloro che attaccano le prese da 32 ampere.

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Ph: Marco Belardi

Poi tutto è ripartito regolarmente: la risuonano da principio, e la portano a conclusione con un’esecuzione impeccabile e un comparto sonoro degno del locale ospitante. Ero a pochi metri dai possenti subwoofer ed era tutto ugualmente nitido, figuriamoci dietro in prossimità del mixer.

Con l’avvento della line-up storica è cambiato tutto. In scena un sacco di fumo, pressoché fisso, e luci sempre più basse, il che ha avuto un solo significato per i fotografi: fine dei giochi. Poi è come se le emozioni fossero uscite nuovamente fuori, però un po’ alla volta. L’inizio è stato quasi freddino, col pubblico un po’ meno coinvolto. Attribuisco questo a due fattori: in primis gli album preferiti dalla stramaggioranza dei metallari sono Black Mass e Heavy Demons. Per quanto In Death of Steve Sylvester sia molto bello, nonché il prediletto per alcuni metallari di vecchia data, sarà celebrando gli altri due che si scatenerà il putiferio. Anche perché la’ fuori c’è gente che non vede l’ora di rimettere Ross Lukather dietro alle pelli dei Death SS. Il secondo fattore è il divario anagrafico fra la prima formazione esibitasi e la seconda. Freschezza, potenza, tenuta e altri aggettivi da pubblicità dei pneumatici nel caso nella line-up storica li hanno avuti alcuni, non tutti. Steve Sylvester è in condizioni fisiche pazzesche, e sinceramente non l’ho trovato mutato nelle movenze rispetto agli show degli ultimissimi Novanta e dei primissimi anni Duemila. Forse usa un po’ troppe basi specialmente sul controcanto. Ma lo fanno tutti, verrebbe tristemente da aggiungere. La relativa fiacca, percepita in avvio sullo speed metal di Murder Angels, si è dissipata finché Black Mummy non ci ha avvicinati al gran finale, con i due incredibili classici Terror e Vampire a mettere il sigillo all’esibizione.

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Ph: Marco Belardi

Alcune note conclusive. Sono completamente d’accordo sull’avere optato per una scaletta greatest hits riguardo al primo set. Inserire troppo materiale recente, o secondario, avrebbe creato un dislivello incolmabile in termini di interesse da parte del pubblico. E sono dell’idea che l’ultimo ottimo album dei Death SS sia stato Resurrection del 2013.

In secondo luogo l’esibizione con la line-up storica, con Ezio Lazzerini, Mario Assennato e Domenico Palmiotta direttamente da un’altra epoca, la considero, più che un lato B da confrontare con il lato A, un autentico regalo a coloro che hanno goduto dei tempi dell’heavy metal italiano che fu. Prima dei Rhapsody, prima dei Labyrinth, prima dei Lacuna Coil.

Termino l’articolo con un pensiero ricorrente che mi ha perseguitato per tutta la serata, la costante sensazione che possa essere l’ultima volta in vita mia che avrei visto i Death SS su un palco. Magari non sarà così, magari andranno avanti ancora per cinque anni o qualcuno in più: quante volte abbiamo visto Steve Sylvester sull’orlo di gettare la spugna, per poi riprendere in mano il tutto in preda a un rinnovato entusiasmo, a qualche idea inedita, o ad un forte attaccamento alla maglia? Un giorno accadrà davvero, e quel giorno ripenserò a quell’ultima volta che vidi i Death SS dal vivo. (Marco Belardi)

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