Liminal Animals, il punto più basso degli ULVER
La prima recensione che ho scritto per Metal Skunk è quella di Flowers of Evil, in cui ho specificato di non essere fedele alla linea del “teorema degli Ulver”, essendo legato alle varie evoluzioni dei norvegesi ed avendone apprezzato, nel corso degli anni, le diverse incursioni in generi e contesti diversi. Non tutto è sempre stato al livello dell’elevato standard del gruppo di Garm, alcuni live, alcuni ep, maxisingoli e progetti non erano all’altezza, ma per me i dischi ufficiali, anche i meno riusciti, hanno sempre avuto qualcosa da dire e sono sempre stati meritevoli di attenzione, riuscendo a comunicare qualcosa, anche a distanza di molto tempo.
Liminal Animals arriva a quattro anni dal precedente e, se nella recensione degli Opeth affermavo che The Last Will and Testament non è un disco figlio di questi tempi, il nuovo Ulver lo è in pieno. L’album infatti è stato più o meno integralmente anticipato da vari estratti, la quasi totalità pubblicati singolarmente nel corso dell’anno, culminando nell’uscita di un EP di quattro pezzi, oltre allo scialbo remix di Autechre di Ghost Entry, pochi giorni prima dell’uscita ufficiale. Una modalità molto in linea con i tempi di fruizione immediata, atomistica della musica, fatta di brani e non di album, che poco si concilia con la profondità che hanno sempre avuto i lavori degli Ulver e che, in parte, ne rivela la natura.
Liminal Animals non solo è l’album meno riuscito degli Ulver, ma è anche un disco poco pensato, vuoto e dagli esiti purtroppo mediocri. Se già Flowers of Evil mostrava segni di esaurimento della vena synthpop inaugurata con lo splendido The Assassination of Julius Caesar, che veniva compensata da alcuni brani di livello notevole e da una certa piacevolezza di fondo, Liminal Animals è un album piatto e privo di nerbo in cui anche gli episodi migliori, quali A City in The Sky e Forgive Us, risultano appiattiti da un generale senso di stanchezza compositiva.
Intendiamoci, si tratta di un album che si lascia ascoltare, nella maggior parte dei casi, non stiamo parlando di composizioni poco curate e non accattivanti, ma la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad una collezione di scarti dei due album precedenti, intrisi in una vena leggermente più malinconica, ma nulla di più. Hollywood Babylon è un’anemica variazione di alcuni pezzi del precedente, la già citata Ghost Entry non è capace di lasciare in alcun modo il segno e Locusts, pur non essendo malvagia, resta di molto sotto ai brani dei suoi due predecessori.
In più il tutto viene appesantito dagli undici minuti della finale e sperimentale Helian (Trakl), che dalla descrizione speravo fosse un epigono della notevole Stone Angels che chiudeva l’ottimo War of the Roses, mentre si rivela essere un indigesto mappazzone ambient, con alcuni passaggi accostabile a roba tipo Buddha Bar, di infimo livello, noiosissimo e senza dubbio il nadir dell’intera discografia dei norvegesi.
Forse è arrivato il momento di un’ulteriore evoluzione nel suono, o di concentrarsi sull’attività live in attesa di idee più concrete.
E poi, diciamocelo, che inaccettabile spreco di capri e caproni in copertina! (L’Azzeccagarbugli)
Liminal Animals non solo è l’album meno riuscito degli Ulver, ma è anche un disco poco pensato, vuoto e dagli esiti purtroppo mediocri. Se già Flowers of Evil mostrava segni di esaurimento della vena synthpop inaugurata con lo splendido The Assassination of Julius Caesar, che veniva compensata da alcuni brani di livello notevole e da una certa piacevolezza di fondo, Liminal Animals è un album piatto e privo di nerbo in cui anche gli episodi migliori, quali A City in The Sky e Forgive Us, risultano appiattiti da un generale senso di stanchezza compositiva.
Intendiamoci, si tratta di un album che si lascia ascoltare, nella maggior parte dei casi, non stiamo parlando di composizioni poco curate e non accattivanti, ma la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad una collezione di scarti dei due album precedenti, intrisi in una vena leggermente più malinconica, ma nulla di più. Hollywood Babylon è un’anemica variazione di alcuni pezzi del precedente, la già citata Ghost Entry non è capace di lasciare in alcun modo il segno e Locusts, pur non essendo malvagia, resta di molto sotto ai brani dei suoi due predecessori.
In più il tutto viene appesantito dagli undici minuti della finale e sperimentale Helian (Trakl), che dalla descrizione speravo fosse un epigono della notevole Stone Angels che chiudeva l’ottimo War of the Roses, mentre si rivela essere un indigesto mappazzone ambient, con alcuni passaggi accostabile a roba tipo Buddha Bar, di infimo livello, noiosissimo e senza dubbio il nadir dell’intera discografia dei norvegesi.
Forse è arrivato il momento di un’ulteriore evoluzione nel suono, o di concentrarsi sull’attività live in attesa di idee più concrete.
E poi, diciamocelo, che inaccettabile spreco di capri e caproni in copertina! (L’Azzeccagarbugli)
