Non escludo il ritorno: OPETH – The Last Will and Testament
Fin da quando è circolato il primo estratto dal nuovo Opeth il livello di curiosità è salito in modo esponenziale per una novità davvero sorprendente: il ritorno al growl di Mikael Åkerfeldt. Un segnale che ha portato in molti a pensare e sperare ad un “ritorno al metal” dei Nostri, a sonorità più cupe che hanno contraddistinto e reso unico il sound della band a cavallo tra i ’90 e i primi 2000, dopo una serie di album che, per chi scrive, sono sempre stati più o meno pregevoli, ma che avevano poco o niente della band che ho visceralmente amato.
E ciò non per il brusco cambio di direzione ravvisabile negli album che si sono susseguiti dal buon Heritage in poi. Non ho problemi di sorta in tal senso: ho continuato ad amare – con gradazioni diverse – quasi tutte le uscite degli Ulver, per non parlare degli Anathema, o, allargando il campo, le ultime pubblicazioni di Nick Cave. E ciò in quanto ho sempre pensato che un certo rifiuto del cambiamento da parte degli ascoltatori, al di là dei gusti, sia anche legato alla difficoltà di accettare il fatto che gli artisti, come noi, non hanno sempre vent’anni e possono voler legittimamente esplorare territori che sentono più vicini al loro sentire attuale, cercando al tempo stesso di far emergere la propria personalità anche in altri territori. Ed è proprio questo il problema dei dischi successivi a Watershed: se persino un disco acustico come Damnation è Opeth al 100%, quegli album sembrano essere composti ed eseguiti da una cover band che vuole omaggiare il progressive rock anni ’70 europeo, senza aggiungere quasi niente.
Una sensazione che viene completamente spazzata via con The Last Will and Testament. Non tanto per l’uso del growl (che è quasi metà del cantato del disco) o dell’effettivo ritorno a soluzioni più vicine al metal (anche al death in alcuni momenti), ma perché è a tutti gli effetti un disco degli Opeth, il loro migliore da Ghost Reveries (se non da Damnation), e, al tempo stesso, un lavoro coerente con quello che gli Opeth sono stati negli ultimi anni.
Mettiamo subito le cose in chiaro: The Last Will and Testament è un disco progressive, senza mezzi termini, in cui sono presenti una miriade di elementi settantiani (a partire dalla presenza di Ian Anderson dei Jethro Tull in qualità di narratore e al suo inconfondibile flauto), così come molti momenti di rock e hard rock (non a caso è presente Joey Tempest degli Europe alle backing vocals), ma è un disco che ha un’anima chiaramente metal in cui si riconoscono tutti gli stilemi che hanno reso unico il sound degli Opeth.
Un concept (da vero azzeccagarbugli) diviso in sette paragrafi (e un addendum) di un testamento di un ricco patriarca del primo dopoguerra che viene letto ai tre figli superstiti, due gemelli e una giovane ragazza afflitta da diversi mali. Il patriarca, nel disporre dei propri beni, svela ai figli dei segreti inconfessabili – con modalità che ricordano la narrazione di Scenes From a Memory – fino a un inatteso epilogo nell’unico brano con un titolo, la splendida A Story Never Told, che ribalta le carte in tavolo, con la lettera inviata dalla madre ad uno dei figli (non spoilero chi) che ha ereditato tutto e in cui viene svelata un’ulteriore verità, ignota persino al de cuius.
Un concept non banale e soprattutto fondamentale perché rappresenta l’ideale struttura di un album i cui brani/paragrafi rappresentano tutti i tasselli di un’unica composizione divisa in più movimenti, la colonna sonora di un film estremamente cupo, dal tono fortemente teatrale, come mai era accaduto nella storia degli Opeth e in cui il growl di Åkerfeldt diventa quasi un modo per esprimere alcuni passaggi più cupi delle ultime volontà del patriarca.
Un lavoro sorprendente in cui è davvero difficile – e inutile – menzionare un singolo brano, in quanto ogni “paragrafo” è funzionale al risultato complessivo e sfuma in quello successivo con una grazia che non si sentiva da tempo, grazie a contrasti e ad accostamenti che mancavano da tanto, troppo tempo nei dischi degli Opeth, in un contesto in cui metal, death metal, progressive, archi e flauti si uniscono alla perfezione creando un’opera unica.
E questo è anche il “problema” di questo album, perché si tratta di un lavoro non immediato, non semplice e poco affine alle modalità e alle tempistiche di fruizione contemporanea, richiedendo attenzione – anche ai testi – e diversi ascolti per essere decifrato. Un disco che non è decisamente figlio del suo tempo, ma che resisterà al suo scorrere e che ci restituisce gli Opeth come una grande band dalla spiccata personalità che, questa volta in modo organico, riprende un percorso che si era interrotto troppo bruscamente. (L’Azzeccagarbugli)
Una sensazione che viene completamente spazzata via con The Last Will and Testament. Non tanto per l’uso del growl (che è quasi metà del cantato del disco) o dell’effettivo ritorno a soluzioni più vicine al metal (anche al death in alcuni momenti), ma perché è a tutti gli effetti un disco degli Opeth, il loro migliore da Ghost Reveries (se non da Damnation), e, al tempo stesso, un lavoro coerente con quello che gli Opeth sono stati negli ultimi anni.
Mettiamo subito le cose in chiaro: The Last Will and Testament è un disco progressive, senza mezzi termini, in cui sono presenti una miriade di elementi settantiani (a partire dalla presenza di Ian Anderson dei Jethro Tull in qualità di narratore e al suo inconfondibile flauto), così come molti momenti di rock e hard rock (non a caso è presente Joey Tempest degli Europe alle backing vocals), ma è un disco che ha un’anima chiaramente metal in cui si riconoscono tutti gli stilemi che hanno reso unico il sound degli Opeth.
Un concept (da vero azzeccagarbugli) diviso in sette paragrafi (e un addendum) di un testamento di un ricco patriarca del primo dopoguerra che viene letto ai tre figli superstiti, due gemelli e una giovane ragazza afflitta da diversi mali. Il patriarca, nel disporre dei propri beni, svela ai figli dei segreti inconfessabili – con modalità che ricordano la narrazione di Scenes From a Memory – fino a un inatteso epilogo nell’unico brano con un titolo, la splendida A Story Never Told, che ribalta le carte in tavolo, con la lettera inviata dalla madre ad uno dei figli (non spoilero chi) che ha ereditato tutto e in cui viene svelata un’ulteriore verità, ignota persino al de cuius.
Un concept non banale e soprattutto fondamentale perché rappresenta l’ideale struttura di un album i cui brani/paragrafi rappresentano tutti i tasselli di un’unica composizione divisa in più movimenti, la colonna sonora di un film estremamente cupo, dal tono fortemente teatrale, come mai era accaduto nella storia degli Opeth e in cui il growl di Åkerfeldt diventa quasi un modo per esprimere alcuni passaggi più cupi delle ultime volontà del patriarca.
Un lavoro sorprendente in cui è davvero difficile – e inutile – menzionare un singolo brano, in quanto ogni “paragrafo” è funzionale al risultato complessivo e sfuma in quello successivo con una grazia che non si sentiva da tempo, grazie a contrasti e ad accostamenti che mancavano da tanto, troppo tempo nei dischi degli Opeth, in un contesto in cui metal, death metal, progressive, archi e flauti si uniscono alla perfezione creando un’opera unica.
E questo è anche il “problema” di questo album, perché si tratta di un lavoro non immediato, non semplice e poco affine alle modalità e alle tempistiche di fruizione contemporanea, richiedendo attenzione – anche ai testi – e diversi ascolti per essere decifrato. Un disco che non è decisamente figlio del suo tempo, ma che resisterà al suo scorrere e che ci restituisce gli Opeth come una grande band dalla spiccata personalità che, questa volta in modo organico, riprende un percorso che si era interrotto troppo bruscamente. (L’Azzeccagarbugli)

D’accordo al 100% con la recensione. Sono, tipo, al trecentesimo ascolto e ogni volta mi piace di più. La prima volta ho seriamente pensato che ci stessero prendendo per il culo, sembrava troppo bello per essere vero. Questo album, per me, funziona sotto ogni punto di vista: è prog, è metal, il growl ha senso, le canzoni sono belle, cresce con gli ascolti. A mani basse il loro miglior album da Ghost Reveries.
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Nulla da aggiungere. Recensione perfetta.
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Per quello che vuole essere alla fine è un buon disco. Chiaramente chi magari si aspettava un ritorno in gran stile sulla scia di lavori come Still Life non potrà che rimanerne deluso. Se gli Opeth di inizio carriera erano una band estrema con influenze progressive, ora sono un band prog con reminiscenze metal, se così si può dire. I pezzi presi singolarmente hanno poco senso, tutto gira intorno a questo diluvio di tastiere, arrangiamenti certosini allo scopo di creare questa atmosfera arcana, orientaleggiante ma di riff davvero significativi non vi è traccia. Ed è un peccato perché Akerfeld è stato un grande riff maker. Se non altro questo parziale indurimento del sound rende il tutto meno stucchevole rispetto agli ultimi anni , un po’ più personale. Non so se sia l’inizio di una nuova fase oppure un primo timido tentativo di rivolgersi al proprio passato, in ogni caso a questo giro non mi sento di infierire. Un album discreto ma per il sottoscritto gli Opeth erano un’altra cosa.
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Sottolineo anche l’importanza del lavoro svolto da nuovo batterista scippato ai Paradise lost, per me un grandissimo talento, in possesso di grande tecnica, ma soprattutto gusto e stile
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Il disco è piacevole, ben registrato, con una grande storia che sorregge il concept; ma sono sicuro che quando sarà passata la “febbre” da “canta di nuovo in growl”, ci si accorgerà di quanto sia meno innovativo e creativo rispetto agli ultimi due album precedenti. Sembrano copie dei vecchi brani.
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Peccato che l’ottimo disco dei Bedsore venga oscurato dall’ appena buono disco dei svedesi.
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Non vedo perché uno dovrebbe escludere l’altro.
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Io non ho ancora sentito quest’ultimo lavoro ma appartengo alla categoria che ha apprezzato l’evoluzione artistica degli opeth e ha ascoltato con piacere tutti i loro lavori anche gli ultimi. Gli gli ho dato fiducia e ho preso il vinile.
Mi ddifferenzio da azzeccagarbugli sugli ulver.. I primi tre lavori spettacolo poi ni poi, per me, zero. Ah apprezzo endorama e il lavoro di satyr con i wongraven ma gli ulver sigh mi mettono tristezza (kveldssanger colonna perfetta per autunno inverno)
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