Doom made in China: DEMON & ELEVEN CHILDREN – Demonic Fascination
Ne parlavamo già quando ci siamo appassionati a band heavy indiane o necro-doom malesi: l’Asia è un gigante in tutti e sensi e se cominciasse a produrre musica heavy che valesse la pena ascoltare (il Giappone fa categoria a sé) non ci basterebbe più il tempo. Pensate che macello. La Cina poi, il gigante per antonomasia (anche se ora si deve guardare dall’India). Ci sono delle ottime ragioni per cui per ora non ha prodotto nulla di che, ma pensate se si sveglia il Dragone, ‘na Camboggia.
Entrino i Demon & Eleven Children, da Guangzhou, provincia di Guangdong. Io in Cina non ci sono stato e del cinese, immaginerete, non capisco nulla. Ma proprio nulla. Cerco Guangzhou sulle mappe elettroniche e mi viene fuori Canton. Mi fido. Sarebbe una città del Sud, “vicino” a Shenzen, Hong Kong, Macao. Non so nemmeno se vanno davvero considerate città separate, salvo che non abbiate finalità amministrativo/burocratiche, perché a guardare le suddette mappe elettroniche (non sapete quanto tempo ci perdo) pare un gigantesco ammasso di strade, fabbriche e palazzi nel diametro di almeno centocinquanta chilometri. Ci riesci a raggiungere un bosco o un paesaggio fosco in un contesto del genere, così, per fare il musicista tenebroso o il tombarolo mancato? Forse no, ma penso che i quattro ragazzetti cinesi di oggi se ne freghino, giustamente. Perché il doom lo fanno lo stesso, bello peso, ciclico, lento-non-lentissimo, fragoroso. Inizialmente dicevo “ecco, mi mancavano i ‘Wizard cinesi”.

La copertina su Spotify VS quella su Bandcamp
No, dai, approfondiamo un po’. Innanzi tutto più che Wizard tirerei fuori Church of Misery e compagnia bella nipponica. E questo già è fico, perché, anche se non ci metto la mano sul fuoco che tra Cina e Giappone in media gli animi si siano distesi, nella fratellanza doom magari sì, e mi pare molto più gustoso che dei cinesi si ispirino a delle vecchie glorie giapponesi più che americane o inglesi. Vecchie relativamente, ma occhio, secondo indizio: il nome della band viene paro paro dall’album del 1971 dei Blues Creation, vecchia (questa sì) leggenda proto-metal del Sol Levante. Se li conoscete, o il nome qualcosa vi ricorda, vuol dire che a un certo punto Japrocksampler v’è passato fra le mani. Bene.
Quindi niente, da qualche parte in una folle megalopoli cinese ci sono questi quattro ragazzi che io immagino giovanissimi, ma non ne so nulla, che fanno un doom un po’ stoner, fragorosissimo, issando fieri un vessillo pan-asiatico. Non solo però: l’iconografia è tutto un “fiorire” di exploitation europea anni ’70, quella “nude carni, teschi e candele”. La più malsana. E noi gioiamo sempre quand’è così (sentirsi a casa ovunque). Due titoli, poi, Demonic Fascination (pure nome dell’album) e più letterale ancora The Shiver of the Vampires (hail Jean Rollin). Fatto tutto loro, praticamente non c’è altro da aggiungere. Tutto perfetto così. Rollin, Franco, una birretta, qualcuno ci metterebbe qualcos’altro da accendere. Magari ci sta. Ci sta farsi prendere bene dal doom dei quattro demoni cinesi.

Dimenticavo, alla voce c’è una ragazza, Akinashi. Canta com’è giusto che canti, sommersa dal riverbero, scoglionata, malata, un po’ acida. Fosse davvero giapponese direi che pare una sukeban, ma della delinquenza giovanile cinese, ce ne fosse, non so nulla. Oh, dico solo che canta come mi aspetterei che cantasse una delinquente cantante di un gruppo doom, Akinashi sicuro è per bene, una brava persona. Solo che il sample di Pot Girl Blues (tipo “I’m a serial killer too! Really?”, cuoricini) facilita la suggestione. A proposito di Church o Misery, comunque. Comunque è un blues questa qui, Pot Girl Blues, appunto, tipo vecchio delta blues, serve per apparecchiare il riffone bestiale spaccacollo di Don’t Bury My Coffin Until You High. Pezzone. E poi dieci minuti di Drown in Hell. Dai titoli capite tutto. Gli elementi ce li avete tutti per capire se vi interessa o ne. Se vi interessa, io dico che dovreste ascoltarlo. È già fico così, Demonic Fascination. Se poi una minuscola band di ragazzini che suona al massimo in qualche bar della sua immensa città a millemila anni luce dal giro doom “che conta” decide di proseguire a stupirci e magari diventa un nome di un qualche peso, beh, che fico sarebbe. Fear the Dragon. (Lorenzo Centini)

44 secondi di atttesa per un inizio di riff sabbathiano e io sono già innamorato.
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Qua un cannone ci sta benissimo
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