Avere vent’anni: RHAPSODY – Symphony of Enchanted Lands II: the Dark Secret

Symphony of Enchanted Lands II, purtroppo non sottotitolato la vendetta, è il primo disco non classico dei Rhapsody. Voglio dire che, quando si parla dei vecchi Rhapsody, o dell’epoca d’oro dei Rhapsody, generalmente si intendono i dischi fino a Power of the Dragonflame. Questo quindi è il loro primo disco normale, diciamo così, e anche a riascoltarlo adesso i paragoni con i predecessori portano sempre alla stessa conclusione.

Detto questo, però, Soel II non è normale per niente, da svariati punti di vista. In primo luogo perché qui dentro c’è un lavoro di scrittura e produzione mastodontico, e basti vedere la lista infinita di musicisti e tecnici partecipanti per farsene un’idea. Un coro, un’orchestra filarmonica, strumentisti classici, uno stuolo di produttori, ingegneri del suono, persino Christopher Lee e Joey DeMaio. Ed effettivamente tutto questo sforzo, anche economico, ha portato al risultato sperato, perché il disco è una gioia da sentire, sia per il suono caldo e avvolgente, all’esatto opposto della sensazione di pecoreccio che spesso restituivano i dischi passati, sia per la cura maniacale degli arrangiamenti e delle armonie. Sin da subito Soel II mi ha colpito per la eccezionale profondità del suono, la quantità incredibile di sfumature e dettagli nascosti. Ovviamente, alla fine di tutto questo discorso, c’è un però.

Però manca la spontaneità, la spensieratezza, diciamo anche il disimpegno, ciò che aveva in sintesi reso grandi i Rhapsody. La loro cifra, alla fine, sono sempre state le melodie trascinanti, gli inni da cantare in coro abbracciati, i for the king for the land for the mountain, i gloria perpetua, quei ritornelli che per molti di noi sono stati generazionali. Unholy Warcry inaugura l’album su questa falsariga, ma è troppo poco riuscita, sembra sforzata. Anche Never Forgotten Heroes, a parte l’incomprensibile introduzione orchestrale, è quella che in qualche modo più ricorda i tempi passati, e nello specifico Wisdom of the Kings; e non a caso è il pezzo migliore. Il resto del disco ha altri obiettivi, lavora troppo di accumulo, cercando di costruire un’opera magniloquente che approfondisca il lato più orchestrale della band a scapito di quello melodico. A rendere pesante l’ascolto contribuisce anche la durata, un’ora e un quarto, con inclusi due pezzi da dieci minuti ciascuno. Ovviamente lo stile compositivo di Turilli e Staropoli rimane sempre quello, quindi le melodie ci sono sempre, così come i ritornelli, ma non sono più il punto focale della questione. Anche perché, ripeto, manca la spensieratezza. Tutto tende all’oscuro, è poco agreste e arioso come una volta, e ciò segna una linea di demarcazione netta coi precedenti album.

È successo sul serio

Se dovessi scegliere un solo aggettivo per descrivere quest’album, l’aggettivo sarebbe professionale. Ecco, Symphony of Enchanted Lands II: The Dark Secret è un disco professionale. Ben fatto, ben curato, ben confezionato, persino un modello per chi avesse voluto suonare power metal in una determinata maniera. Ma vi pare che un disco dei Rhapsody possa ridursi a essere definito professionale? A parte l’ammirazione per l’impegno negli arrangiamenti e nelle orchestrazioni, a parte lo splendore di un suono perfetto, chi mai avrebbe cercato professionalità nei Rhapsody? In loro si cercava il ritornello da cantare in coro abbracciati sotto al palco, la melodia salterella da villaggio dei folletti, il sottofondo per le grigliate, i videoclip col maialino scannato e le faccette di Luca Turilli col mullet durante gli assoli. Certo, in tutto questo c’era un determinato stile, e un senso delle orchestrazioni che li ha sempre contraddistinti sin dal debutto, ma era l’elemento, diciamo così, verace a dare un senso alla loro esistenza, quello che li aveva proiettati sulla cima del genere e li aveva resi i migliori al mondo a fare ciò che facevano.

In conclusione, allo scoccare del loro quinto (o sesto, visto che Rain of a Thousand Flames, venduto come Ep, durava tre quarti d’ora), i cari vecchi Rhapsody mutarono quindi pelle, per risorgere in un’incarnazione più evoluta e matura che, però, aveva perso il fascino innocente degli esordi. Non so se fosse uno sviluppo inevitabile o necessario, ma così è stato. Questo fu anche il solco in cui si sarebbero mossi i successivi dischi della band di qui in avanti, e il solo Turilli, dopo la separazione, cercò di riprendere quella vecchia spensieratezza. Non con gli stessi risultati, chiaramente, ma ce lo saremmo fatti bastare. (barg)

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