Pensavo fosse la fine, o forse il 4 di luglio. Trent’anni di Superunknown

Down in the hole,
Jesus tries to crack a smile
Beneath another shovel load

Estate 1999. Quindici anni mal contati, i miei. Non ancora compiuti. Superunknown invece ne aveva già cinque, ed in quei cinque anni i ‘Garden avevano fatto in tempo a veder fallire Down on the Upside, purtroppo, per poi sciogliersi. Io ascoltavo già rock duro per conto mio, non ancora durissimo, e solo da una stagione o due. Mi accodavo da imbucato al giro punk/grunge in città. Era un passaggio naturale, perché comunque avevo già passato l’estate ’96 ad ascoltare compulsivamente Mellon Collie dei Pumpkins insieme a mia cugina, che ne era patita, quasi invasata. Ora cercavo di allargare il mio giro. Mi passavano i dischi, tanti. Diversi da quelli ereditati da mio fratello. Nella prima infornata, Carlo mi passò i Kina ed i Nine Inch Nails. Ero nella sua cameretta, ricoperta però di poster di Pantera, Sepultura, Deicide, Morbid Angel. Mi stavano piacendo i Pearl Jam, Live on Two Legs, ma ci avevo messo alcuni ascolti prima di trovarmici. Il primo ascolto di Superunknown, invece, era stato naturale. Subito fluido e necessario. Me ne aveva passato la sua cassetta doppiata Elena, che all’epoca stava con Carlo, e io non ci pensai un secondo a copiarmela a mia volta. E poi ad ascoltarla ogni sacrosanto giorno. Un rito. Quell’anno e il successivo penso di non esagerare se vi dico che l’ho ascoltato almeno due volte al giorno, per davvero. Non faccio il conto dei minuti, delle ore, perché mi spaventerebbe e voi non mi credereste. Ma sicuro mi credete se vi dico che con quella cassetta è cominciata un’amicizia importantissima, ancora oggi. Non poteva proprio iniziare meglio.

Goldsmiths_Main_Building

Comunque, estate 1999. Vado a Londra, per due settimane studio la lingua inglese in un college inglese, il Goldsmiths, dove ho scoperto solamente poi che si erano formati i Blur. C’erano i prati, le casine. Tutte le facilities degli studenti inglesi. Idilliache. Ero con altri centocinquanta ragazzini italiani mandati dall’IMPDAP, cinquanta dal nord, cinquanta dal centro, altrettanti dal sud. La prima volta fuori, da soli senza i genitori. Per me e penso per la stragrande maggioranza degli altri. C’era chi fumava senza adulti tra le palle, chi cominciava ad andare appresso alle ragazzette. Come dargli torto.

D’altronde, ognuno aveva la sua cameretta singola. La finestra della mia non dava sui prati verdi del cortile del college, ma sulla strada esterna. Cielo grigio, marciapiede di cemento, grigio sporco, negozi bassi di mattoni rossi, rosso sporco, traffico, rifiuti in terra. Passavo parecchio del tempo che avevo a guardare fuori da quella finestra. Un giorno osservai per dei minuti la polizia perquisire un’auto parcheggiata proprio davanti alla mia finestra, smontandone letteralmente i sedili, fino a scoprirne l’imbottitura, incuranti della gommapiuma che rotolava sul marciapiede. Attorno, nessuno pareva farci chissà che caso. Era un po’ una prova uscire in strada da soli, quasi quindici anni e quattro nozioni scolastiche di inglese. L’ho fatto, ma era comunque meglio uscire in compagnia. Solo che io non legavo molto. Me ne stavo molto in disparte, per conto mio. Ho dei bei ricordi, alcune cose che mi sono goduto proprio perché ero da solo, per cazzi miei. Ascoltavo tantissimo Superunknown, mi ero portato cassetta e walkman. Lo ascoltavo tantissimo mentre guardavo fuori dalla finestra. Ogni mattina, al rientro dalle lezioni, dopo i pasti, nelle ore pomeridiane in cui non avevo un cazzo da fare e di stare con gli altri non mi andava. La cameretta del mio vicino puzzava di hashish, qualcuno andava in giro esibendo i succhiotti della sera prima. Io ero in camera a sentire i Soundgarden. Non lo dico come un vanto, ci mancherebbe. Ma è un fatto, è andata così. 4th of July, ogni volta che la ascolto, pure oggi, mi fa tornare in mente imediatamente l’immagine di quei poliziotti che smontano a pezzi un’utilitaria rosso sporco, tra gente indaffarata che passa incurante schivando la gommapiuma e gente che bighellona e rovista nei cestini dell’immondizia. Mi fa tornare in mente il vuoto di ore passate da solo, in una stanza, a guardare il mondo fuori, dalla finestra. Non è una bella immagine o significativa, non ve la racconto per questo. Semmai piuttosto vuota, appunto, come immagine. Vuota di senso, come osservare da dietro un vetro esserini che si muovono casualmente, a volte si scontrano, altre si evitano, ma di cui in fondo non te ne frega nulla e li guardi proprio per questo. Come i pesciolini di un acquario. Che a me fanno una pena infinita ogni volta, attenzione, loro sì, ma credo che alla stragrande maggioranza di voi non freghi un cazzo delle loro esistenze misere fatte di acqua stagnante, piante di plastica, neon, quattro mura (di vetro). Ma immaginate che la parete che separa voi dall’acquario fosse infinitamente estesa, molto più delle vostre ridicole dimensioni umane, sapreste dire con certezza chi è dentro l’acquario e chi fuori? Ecco, vedete, il solito discorso depressoide. Banale, da due soldi. Non riesco a farne a meno. E dire che dovevo solo celebrare un disco infinito.

And I heard it in the wind
And I saw it in the sky
And I thought it was the end
I thought it was the 4th of July

Non credo aspettiate me, però, per riflettere su quanto questo disco sia splendido. Dal dizionario:

splèndido agg. [dal lat. splendĭdus, der. di splendēre «splendere»]. – 1. Che risplende vivamente, che ha una luminosità molto intensa: luce s.; sole, cielo s.; Come rimane s. e sereno L’emisperio de l’aere, quando soffia Borea (Dante). (…)

Non torna, però. Superunknown non splende veramente. Semmai assorbe la luce. In realtà è una voragine, anche se non sembra. Certo, prende il nome (un nome brutto, forse un po’ stupido) da un brano in fondo colorato ed heavy, anzi, quasi heavy psych. Roba in fondo non troppo dissimile da quella dei festaioli Monster Magnet (quell’altro capolavoro assurdo di Dopes to Infinity sarebbe uscito l’anno successivo). Certo, lo anticipa un brano positivo come Spoonman, primo singolo, direi inclusivo. E certo, l’attacco è affidato a due brani gagliardi, trascinanti. Trascinanti già per il ragazzino che ero io. Se non fosse stato per Let me Drown e My Wave chissà se mi sarei innamorato subito di questo disco qua. Due brani pure piuttosto convenzionali, hard rock, non fosse per Matt Cameron che come dice il Belardi fa sembrare semplici le cose difficili e spesso anche viceversa. Però la sostanza vera del disco è altrove, fatta di aria stagnante. Non di musica stagnante, anzi, semmai l’opposto. Musica fertile. Aria stagnante però sì, a tratti asfissiante. Considerate sempre che due dei brani più leggeri, tra i più celebrati, hanno titoli tipo precipitai in giorni bui e il giorno in cui ho provato a vivere. Provai a vivere, Cristo, e sappiamo che Cornell non ce l’ha fatta fino alla fine. Asfissiante, lo strato ancora più profondo del disco. Quello di Mailman, Fresh Tendrils, 4th of July, Limo Wreck, Like Suicide.

A proposito di Mailman Cornell affermò:

La prossima canzone è un racconto che arriva da un impiegato del servizio postale statunitense. Fanno meravigliosamente il loro lavoro. Indossano pantaloncini corti d’estate, sono cortesi, attenti, sono gentili con i cani, e poi ogni tanto entrano in un ufficio postale e sparano a ogni singolo collega che incontrano. A parte questo, però, il loro lavoro viene svolto in modo esemplare.

Quattro mura, gli stessi movimenti infiniti, ogni giorno. Abito in ordine. Il giorno in cui ho provato a vivere. C’è morte quasi ovunque in Superunknown. Di più:

C’è una strana sensazione lì dentro, una sorta di tristezza irrisolvibile o desiderio indescrivibile che non ho mai veramente cercato di isolare, definire e comprendere appieno. Ma è sempre lì. Come se fosse infestato.

Sempre Cornell. Parla di una cosa stregata, o infestata. Ora quasi va di moda la musica che si fa definire haunted. Spesso diafana, di solito essenziale. Di questi tempi ha un suo peso. Però invece Superunknown è ricchissimo di dettaglio e colori. Pur con tutta la morte che si trascina appresso. E però resta inafferrabile. Al confronto con un suono potente, arrembante, quello di un Badmotorfinger, il suono di Superunknown è appunto inafferrabile in un unico concetto. Vario, unico. Sì, grunge, nessun dubbio. Ma non e così semplice. Nel marzo 1994, ad un mesetto circa dal giorno in cui Kurt Cobain si sarebbe fatto saltare in aria le cervella col piombo, quelli che avevano già conosciuto Flower o Hands all Over già aveva idea del profumo orientale che una chitarra era in grado di sprigionare. Tra questi forse il Greco, che se non sta scrivendo lui in persona un pezzo su questo trentennale è solo perché ha esaurito la sua scorta di sinonimi della parola “capolavoro”. Io invece nel 1999 non avevo ancora iniziato ad imparare quanto una chitarra potesse profumare, e nemmeno che un’inflessione di voce potesse far venire buio all’improvviso, in pieno giorno. Ne fa parecchio, di buio, il tono di Cornell. Pure se qui ancora più che in quei pochi momenti di Badmotorfinger viene fuori il suo amore per i Beatles. E adesso vi dico un’altra di quelle cazzate di cui mi convinco da solo prima di assillare gli altri: i migliori discepoli dei Sabbath sono quelli che ne condividono il segreto: l’anima beatlesiana delle melodie. Chiedete a Peter Steele. No, cazzo, manco a lui potete più chiederlo, ma mi pare che l’abbia detto e dimostrato a sufficienza, finché è campato. Ma torniamo a noi. Torniamo al buio.

Non è che si possa tirare fuori un pezzo solo per rappresentare Superunknown. Salvo che non si voglia essere banali. Uno mi sembra esserne proprio il nocciolo più nero e inconsolabile. Parlo di Limo Wreck, un quasi blues, duro e speziato, ma senza speranza. Mai stati degli allegroni, i Soundgarden, ma ne è passata d’acqua sotto il ponte da quando si divertivano a prendere per il culo il machismo ostentato dei Manowar (mica solo il loro) in Big Dumb Sex. Limo Wreck appartiene ad un filone laterale nella carriera dei ‘Garden, quello dei brani blues, da tradizione hard rock, come Incessant Mace. Però non ha nulla di quel tono raffazzonato che hanno spesso i blues. Con la voce, Cornell non ha ancora perso del tutto il vizio di rivaleggiare con Dio. Intendo con quello della Bibbia, perché invece con quello di Holy Diver poteva rivaleggiare benissimo. Non so se mi spiego. Poi ho una passione per la chitarra di Kim Thayil. Ci sono gli armonici di chitarra che sanno di incenso, in Limo Wreck. Ha una gravità insostenibile, tanto che quando subito dopo ti trovi Cornell a canticchiare che ha provato a vivere, un giorno, ti paiono caramelle e zucchero filato. Assurdo. Anche se è un incessante trattato sull’alienazione, sulla depressione e sulla morte, insistito, Superunknown vive di contrasti. E noterete poi che non ho proprio nominato nemmeno una certa canzone. E nemmeno mi sono soffermato su Like Suicide, dolore puro. Ha troppe anime, Superunknown, troppe perché non sia questo pezzo qui a trasformarsi in un trattato. Ancora non ho nominato Ben Sheperd, animo forse ancor più nero e caotico, col ciuffo di un Chris Isaak spettinato uscito vivo per miracolo da un incubo lynchiano. Il suo contributo è tutt’altro che trascurabile, ma io già sto correndo il rischio di farmi tagliare il pezzo da Ciccio. Comunque volevo suonare esattamente come lui a quindici anni. Quando Carlo, quello che mi passava i dischi, doveva insegnarmi a suonare il basso. Promesse da mercante. Cercai le corde che usava lui, Sheperd. Nemmeno un cugino a Bologna riuscì a procurarmele.

Credo sia giusto stabilire ora che Superunknown è il mio disco preferito. Forse. O per lo meno quello con cui ho un rapporto più viscerale che con qualsiasi altro. Non ero più adolescente quando Cornell ha terminato la sua vita togliendosela con una corda al collo. Non ero più adolescente e ho provato un lutto. Come quello di mia madre quando è morto Marcello Mastroianni, attore amatissimo, a ragione. Non ero più adolescente e quindi sapevo che non ci fosse nulla di “fico” nel suicidio di un musicista, per di più di uno che ti aveva parlato così tanto. Non ero più adolescente e avevo capito ormai che la vita era sicuro una merda, una fregatura, e questa cosa non sarebbe cambiata. Per mia fortuna oggi, dopo tutti questi anni, ho trovato una persona con cui condivido i momenti comuni e quelli straordinari. Non è affatto poco, anzi. Senza non so come farei. Non era affatto scontato quando me ne stavo in quella cameretta a Londra est. Con gli altri, in massima parte, sono rimasto quello di sempre. Magari ho sviluppato qualche tecnica in più per stare al mondo. Ma ancora adesso, che non gioco a carte ma bevo vino, quando la gente sorride, a me sembra che quei sorrisi si stiano squagliando davanti ai miei occhi. (Lorenzo Centini)

11 commenti

  • Avatar di TonyLG

    Fu il primo disco dei Soundgarden uscito quando ero già ascoltatore consapevole (nel senso che seguivo la musica e attendevo il nuovo lavoro di questo o quel gruppo).

    Però, devo dire la verità, non l’ho mai amato. Forse, perchè sentire “Black Hole Sun” in tutte le salse mi aveva un po’ stomacato…boh!

    O forse perchè, banalmente, avevo delle aspettative ed è sempre una trappola.

    Fatto sta che continuo a preferirgli “Badmotorfinger”.

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  • Avatar di Bonzo79

    capolavoro epocale e unico disco loro che ascolto ancora regolarmente: il successivo mi fa schifo, i precedenti, mea culpa, non mi sono mai entrati nel cuore. tra i miei dischi extra metal preferiti in assoluto

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  • Avatar di Fanta

    Sì può dire che avete rotto il cazzo con sta retorica della vita che è una merda? Non è che sei solo te, eh Centì. Direi che è un repertorio culturale piuttosto accomunante, qui su metal skunk. Grazie al cazzo che la vita è anche una merda. Anche. Eppure sei tu stesso a disconfermarlo quando parli di amicizia, amore, incontri, storie. Relazioni.
    Diceva qualcuno a me caro: non ci vuole nulla a mandare tutto a puttane. Basterebbe agìre l’umore con cui ci svegliamo certe mattine. Prenderlo maledettamente sul serio e comportarsi di conseguenza, seguendo quel segmento impulsivo. È molto più difficile costruire, faticare, farsi un culo così per andare dietro al proprio desiderio. As-sidera (morire con lo sguardo puntato sulle stelle), con-sidera. De-sidera (vivere e guardare di fronte a sé, laddove si incontra l’altro).
    Detto questo anche io preferisco Badmotorfinger. Ma di brutto brutto brutto. Ovviamente è solo una questione di età, storia, esperienza, relazioni. Soggettività. Il disco in oggetto invece lo regalai a una splendida stronza di cui mi innamorai perdutamente, tanto tempo fa. Non me lo restituì. Anni e anni dopo mi telefonò (quando ancora ci si chiamava a voce) per dirmi che se avesse potuto sarebbe tornata indietro.

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    • Lorenzo Centini
      Avatar di Lorenzo Centini

      Messa così, in effetti, la vita è una figata.

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      • Avatar di Fanta

        “Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. È impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta- sia pure per intensificarsi. Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno- consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più”.

        https://cripplingalcoholism.bandcamp.com/album/with-love-from-a-padded-room

        If I can stop one Heart from breaking

        I shall not live in vain

        If I can ease one Life the Aching

        Or cool one Pain

        Or help one fainting Robin

        Unto his Nest again

        I shall not live in Vain

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      • Avatar di Fanta

        Te la metto in un altro modo, se hai la pazienza di leggermi. Sono in pausa e mi piace scrivere cazzate.

        Fondamentalmente esistono due posizioni chiave nei confronti del vivere. Una è questa:

        “Il dolore non è affatto un privilegio,
        un segno di nobiltà,
        un ricordo di Dio.
        Il dolore è una cosa bestiale e feroce,
        banale e gratuita,
        naturale come l’aria.
        È impalpabile,
        sfugge a ogni presa
        e a ogni lotta; vive nel tempo,
        è la stessa cosa che il tempo (…)”.

        L’altra è questa:

        If I can stop one Heart from breaking

        I shall not live in vain

        If I can ease one Life the Aching

        Or cool one Pain

        Or help one fainting Robin

        Unto his Nest again

        I shall not live in Vain

        Gran parte del pensiero filosofico si è affastellato sulla prima posizione. Pure la psicologia. Individualismo, quello che Lacan chiama il delirio del pensarsi un “Io”.

        La seconda posizione è quella della responsabilità, dell’immanenza e della trascendenza “orizzontale”, del significato della vita che si incide sul volto dell’Altro. Lévinas, per esempio. Stephen Mitchell, Thomas Ogden, Daniel Stern, Ignacio Matte Blanco, Renzo Carli.

        Sono dalla parte di Dostoevskij quando dice che “non c’è felicità nel confort, la felicità si acquista con la sofferenza. L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo si guadagna la sua felicità, e sempre con la sofferenza”. O meglio: attraversando la sofferenza.

        https://cripplingalcoholism.bandcamp.com/album/with-love-from-a-padded-room

        Questo disco, ad oggi nella mia top ten 2024, attraversa la sofferenza, è una fucilata nello stomaco. Leggiti il testo di Ottessa, per esempio. Ma non si cristallizza nella rassegnazione. La rassegnazione della depressione che sta bene su tutto, come il grigio, è un retaggio culturale del peggior cattolicesimo.

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  • Avatar di Rossella

    Lorenzo Centini il tuo scritto mi ha spaccato il cuore…… Come mi si spacca tutte le volte che ascolto la voce di Cornell.

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  • Avatar di Melvins74

    Preso appena uscito, ascoltandolo si sentiva la puzza di voler fare il botto ad ogni costo.
    Comunque neanche paragonabile a Louder Than Love o Badmotorfinger..
    Riascoltato oggi , con la merda che ci circonda, sembra una bomba nucleare.

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  • Scarmigliato Abborracciato
    Avatar di Scarmigliato Abborracciato

    Disco immenso, purtroppo o per fortuna “offuscato” da un super singolo pompato da MTV. Ma se non fosse stato per quel super singolo non avrei mai scoperto il resto, inteso anche un certo Badmotorfinger. Non c’è dubbio che abbia resistito alla prova del tempo, altro pregio più unico che raro…

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  • Avatar di nxero

    Quello che fa la differenza rispetto a Badmotorfinger è Ben Sheperd… Citi tante canzoni ma non Head down. Ben scriveva le canzoni più estrose, se prima con Hiro erano massici, potenti, blues Ben installa la psichedelia nei Soundgarden. Se nel precedente era solo accennata, qui esce alla grande ed il capolavoro è quel piccolo brano che inizia con una partita a ping pong e finisce per omaggiare Barrett. Fermo restando tutto il resto, giù il cappello per Sheperd.

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