The Passion of Dyonisus: David DeFeis come Bela Lugosi

Il film più triste che abbia mai visto è Ed Wood di Tim Burton, del 1994. L’ho guardato solo una volta, credo ormai venticinque anni fa, ma ricordo perfettamente la sensazione di presa a male. Per chi non l’avesse visto, il film è incentrato sulla figura, realmente esistita, del regista Ed Wood, interpretato da Johnny Depp, che fu autore di vari film a bassissimo costo tra gli anni ’50 e ’70 e che si industriava in modo assai fantasioso per cercare di ricavare il massimo possibile da quei pochi mezzi a disposizione. Il film di Tim Burton si concentra sulla realizzazione di Plan 9 From Outer Space, che successivamente sarebbe stato considerato “il film più brutto di tutti i tempi”.

Bela Lugosi

Ed Wood ebbe l’idea di recuperare un vecchio volto noto ormai caduto nel dimenticatoio, vale a dire Bela Lugosi, antico interprete del primo Dracula di Tod Browning del 1931 e di altre pellicole horror successive. Nel film di Tim Burton, quando il protagonista tira fuori questa sua idea, tutti rispondono alla stessa maniera: “Lugosi? Ma non era morto?”. E infatti l’anziano attore rumeno, distrutto dall’uso di morfina per curare una vecchia ferita di guerra, passava la sua vita dimenticato da tutti, tra cliniche, manicomi e ospizi per poveri, partecipando ogni tanto a filmacci scrausi per sbarcare il lunario. Secondo Ed Wood, Bela Lugosi avrebbe aiutato a dare visibilità al film a fronte di un costo irrisorio. Tutto questo è realmente accaduto, e i film di Ed Wood con Lugosi (Glen or Glenda, La Sposa del Mostro e il suddetto Plan 9 From Outer Space) si trovano tranquillamente in giro.

Il problema era che Lugosi non c’era più con la testa. Un po’ la droga, un po’ l’età, un po’ l’amarezza di essere finito nel dimenticatoio dopo essere stato sulla cresta dell’onda, ma l’attore (interpretato nel film di Burton da un meraviglioso Martin Landau, che vinse l’Oscar come migliore attore non protagonista) era diventato un pietoso vecchietto macilento, l’ombra di un essere umano. Di più: era diventato schiavo del suo personaggio, come se in un cantuccio del suo cervello lui fosse convinto di essere davvero Dracula, in fondo. E infatti diede disposizioni di essere seppellito con indosso il suo costume da vampiro, cosa che poi accadde sul serio.

Bela Lugosi nella bara vestito da conte Dracula

C’è una scena in particolare che a un quarto di secolo di distanza ancora mi fa venire la pelle d’oca: Lugosi che, infuriato per quello che a suo dire è uno scadimento delle capacità attoriali dei protagonisti horror (soprattutto Boris Karloff e Christopher Lee, se ben ricordo), vuole dimostrare al resto della troupe come si fa a fare Dracula. E allora, atteggiato il volto a maschera mortifera, fissato lo sguardo in un modo che vorrebbe essere magnetico, recita la sua parte in un crescendo di impeto, muovendo le mani in modo teatrale, torcendo e strabuzzando gli occhi. In quella scena Tim Burton e Martin Landau riuscirono perfettamente ad esprimere il senso di frustrazione e orgoglio ferito di una vecchia gloria finita nella polvere e con la mente dissociata dalla realtà.

Avrete già capito dove voglio andare a parare. The Passion of Dyonisus è l’ultimo lavoro in studio dei Virgin Steele e ascoltandolo si provano più o meno le stesse sensazioni di cui ho parlato finora. Ho avuto occasione più volte di parlare di quanto immenso fosse il gruppo di David DeFeis, e un tracollo simile non se lo sarebbe mai aspettato nessuno, una ventina d’anni fa. Non che sia una novità, perché da Visions of Eden (2006) in poi è stato una ininterrotta e disperata picchiata verso l’abisso, con la punta del kitsch probabilmente rappresentata dalle tantissime cover di gente che davvero dovevano evitare di coverizzare: George Gershwin, Chris Isaak, Doors, Sting, Tito & Tarantula, Mother Love Bone, Alice in Chains e ci fermiamo qui per pura pietà. Cosa può esserci di peggio di una cover di Nutshell dei Virgin Steele? Ma poi, perché? Se non si hanno idee, non è meglio il silenzio? Quindi paradossalmente The Passion of Dyonisus non è la cosa peggiore che abbiano fatto, anzi ascoltandolo si tira quasi un sospiro di sollievo perché la paura maggiore era, che so, che David DeFeis si mettesse a gorgheggiare su un qualche pezzo dei Death in June, dei Duran Duran, dei Deicide o di qualche altro gruppo distantissimo da loro scelto a caso tirando con la monetina.

La formazione dei Virgin Steele al completo

Per quanto riguarda il disco, come detto, il sentimento prevalente è la tristezza. La frase che spiega meglio la faccenda è che è tutto sbagliato. Innanzitutto il suono: è prodotto da cani, anzi autoprodotto da cani; prima stavo sentendo il pezzo nuovo degli Eldamar che è prodotto molto meglio, e stiamo parlando di una one man band di un ragazzino norvegese che suona black metal atmosferico nella propria stanzetta per noi quattro-cinque stronzi che lo seguiamo, non di un gruppo glorioso e fondamentale con quarant’anni di carriera alle spalle, la metà dei quali imprescindibili per ogni ascoltatore di metal classico. Poi dura 80 minuti, roba che se fosse uscito durante la guerra in Afganistan gli americani lo avrebbero usato al posto di Enter Sandman per torturare i talebani. 80 minuti nei quali David DeFeis cerca disperatamente di inseguire quella vecchia scintilla, di riaprire quelle vecchie porte, ormai chiuse e impolverate, al di là delle quali era l’essenza suprema della sua epica. Un continuo riproporre lo stile di Invictus e House of Atreus, nel tentativo puntualmente sempre più patetico di ricreare quel sublime equilibrio che ai suoi tempi produsse musica di respiro immortale. È triste, molto triste, perché la voce di DeFeis ha accompagnato alcune delle cose migliori mai scritte da mano umana, e sentirlo ora miagolare e gorgheggiare su un tappeto di drum machine e tastierine Bontempi di polistirolo fa male al cuore. E la cosa più triste è che qualche buono spunto ci sarebbe pure: del resto non è che uno come DeFeis può ridursi a fare completamente schifo, per quanto ci si metta d’impegno (e qui l’impegno a fare schifo è tanto, credetemi). Ad esempio You’ll Never See the Sun Again, con una durata minore di quei tremendi nove minuti e un ripensamento strutturale degli arrangiamenti, non sarebbe male. Il problema vero è che DeFeis si ostina a voler fare tutto da solo: se si affidasse a un buon produttore e aggiungesse membri in formazione a cui dare un minimo spazio di manovra, magari qualcosina di buono ci uscirebbe fuori. Ma così è solo un dolore atroce al cuore. Capisco che lui sia intrappolato nel suo personaggio e nella enormità della sua passata discografia, però non tutto è perduto. Certo, ci vuole un cambio radicale di direzione, e magari una maggiore disponibilità ad ascoltare chi ti dice che questa tua nuova idea che tu consideri una gran figata in realtà è una porcheria. A cominciare dalle copertine, per esempio. O assoldare un batterista, che ne so. È complicato, è duro da ammettere, ma un nome come quello dei Virgin Steele non merita questa straziante agonia. Altrimenti l’unica alternativa possibile è che DeFeis si faccia seppellire con la maschera di Agamennone e un sensore sulla lapide che fa MIAO ogni volta che passa qualcuno. (barg)

5 commenti

  • I Virgin Steele sono i Jenna Jameson dell’Heavy Metal.
    Chi ha da intendere…

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  • Non ho ancora avuto il coraggio di ascoltarlo ma non ho dubbi sul fatto che sia una cosa mortificante

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  • Ho provato, ma è inascoltabile.

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  • Mi pareva si fosse detto di ignorarli, pur di non parlarne male…

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  • Nel febbraio 1996 uscirono “Skunkworks” di Bruce Dickinson e il “Marriage Part II” dei Virgin Steele. Poco dopo, durante una gita scolastica di cui ricordo ben poco del programma artistico, ma molto meglio l’abisso che separava senza speranza la maggioranza infoiata dalle turbe di noi pochi outcast metallari (non una novità), laghi di vodka e vomito (manco questi sorprendenti), io e il mio socio di metallo trovammo casualmente, sotto una pioggia deprimente, un raggio di sole in un negozio di dischi lucchese, che aveva in vetrina i due cd di cui sopra. Lui si prese Dickinson, a me toccarono i VS e tornati a casa, dopo un assestamento iniziale sui suoni (le trombe sintetiche in apertura non sono il massimo), e realizzata la traumatica svolta grunge di Bruce, concordammo che a questo giro era andata bene a me.

    Vabbè, tutta questa manfrina nostalgica per dire che effettivamente fa male leggere com’è finita con DeFeis. Ma in tutto ciò, allora i marò? Cioè, volevo dire, Pursino? Si sfonda di margarita e non si accorge che la chitarra è scollegata il più del tempo?

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