Ghost at the Gallows: gli SPIRIT ADRIFT sono persone serissime

Come già dovreste sapere, gli Spirit Adrift sono persone serissime e sono anche grandi lavoratori, per cui abbiamo il loro nuovo album, Ghost at the Gallows, uscito puntualissimo il 18 agosto scorso.

Il gruppo è una creazione del fondatore Nathan Raleigh “Nate” Garrett che si occupa di voce, chitarre, basso ed eventuali percussioni. Con Ghost at the Gallows c’è un cambio alla batteria, per la verità già avvenuto in occasione dell’EP 20 Centuries Gone, per cui Michael Arellano ha sostituito Marcus Bryant, il quale era in formazione dal 2017. Alla chitarra solista si aggiunge un certo Tom Draper. Per i concerti, il bassista dell’attuale formazione è Sonny DeCarlo. Nate Garrett è anche produttore insieme a Jeff Henson, che in precedenza ha inciso per esempio gli High on Fire o gli Eyehategod, e a Sanford Parker, che ha fatto lavori simili, ma ha anche collaborato con Darkthrone e Voivod. In effetti la produzione è una delle cose rimarchevoli degli Spirit Adrift e in particolare di questo disco, per la scelta dei suoni caldi e valvolari, per la buona separazione degli strumenti, per la capacità di valorizzare ogni musicista e, in definitiva, ogni canzone.

La copertina di Ghost at the Gallows è stata affidata a Jeremy Hush, artista di Filadelfia che produce illustrazioni in stile fra l’ottocentesco e il liberty; ha già lavorato per diversi musicisti, anche metallari.

SAdr

Lo slogan di presentazione degli Spirit Adrift è “We’re Spirit Adrift and we play heavy metal” ed è la frase che ripetono all’inizio di ogni concerto. Hanno ragione a dirlo, perché suonano un metal molto classico e lo sanno fare anche molto bene. In particolare a me piace la loro sintesi fra heavy metal, hard rock e un retaggio epico che proviene dalle loro origini doom. La voce di Garrett è calda e potente, perfetta per il muro sonoro su cui deve stare. Venendo alle composizioni, il livello generale è molto elevato, la concezione di ogni brano è maturata ulteriormente rispetto ai lavori precedenti, la scrittura è ancora più efficace ed equilibrata: l’esperienza e i professionisti in studio cominciano a farsi sentire sul serio. Personalmente trovo solo due canzoni al di sotto della media dell’album, ovvero l’opener Give Her to the River, che pur avendo dei buoni riff alternati a parti rallentate risulta poco interessante, e quella che trovo meno convincente di tutto l’album, ovvero Siren of the South, che però forse a qualcuno può piacere, con i suoi ritmi sincopati. Per il resto abbiamo un’infornata dopo l’altra di ottimi brani, a cominciare dai due singoli Death Won’t Stop me e I Shall Return, che sono i più rappresentativi, Barn Burner che porta una piacevole sfumatura di anni Settanta, e Hanged Man’s Revenge, l’episodio più tirato, con ritornello potente e da gridare dal vivo. C’è anche una ballata molto bella, These Two Hands. Diversa da tutte le altre è l’ultima dell’album, l’eponima Ghost at the Gallows, che si riavvicina ai vecchi tempi del doom epico, per quanto rimanga coerente con lo stile più recente degli Spirit Adrift.

Anche i precedenti Enlightened in Eternity e Divided by Darkness si chiudevano con una canzone orientata al doom e lunga: dev’essere una sorta di firma degli ultimi Spirit Adrift; vedremo se si manterrà anche nei prossimi lavori, che siamo certi arriveranno presto, data la prolificità del gruppo. Per concludere, se ai primi ascolti avevo collocato questo Ghost At The Gallows alla pari di Enlightened In Eternity, che consideravo il loro apice, dopo averlo ripassato e ben meditato, mi sono convinto che sia il loro album migliore prodotto fino ad oggi e si candida fra i dischi dell’anno. (Stefano Mazza)

 

Un commento

Scrivi una risposta a penteratto Cancella risposta