Avere vent’anni: DEADSOUL TRIBE – A Murder of Crows

Qualità, ma passata pressoché inosservata. Un concetto che potrebbe essere applicato alla quasi intera discografia dei DeadSoul Tribe.

C’è stato un periodo in cui la homepage della InsideOut Music è stata come la mia seconda casa. Le persone che, come me, godono nell’ascoltare musica vivono un periodo della loro vita in cui provano la stringente necessità di seguire solo e per forza il progressive metal. A me successe appunto nel 2004, e questo si traduceva nel frequentare -obbligatoriamente – The Human Equation di Ayreon. Fu leggendo il libretto di quel bel lavoro che scoprii l’esistenza di tal Devon Graves, che lì prestava la voce al personaggio di Agony ma che, scoprii, aveva già una rispettabilissima carriera in altre band, la più famosa della quale erano gli Psychotic Waltz.

La voce e la personalità del Graves – fondamentalmente un tenore, ma con un range vocale straordinariamente esteso e la capacità di metterlo al servizio della musica che vuole suonare – mi piacquero nel concept di Ayreon e, quindi, scoperto che la InsideOut produceva anche i lavori della sua “nuova” band, mi procurai questo A Murder of Crows, secondo lavoro – e meglio riuscito rispetto al primo – dei DeadSoul Tribe.

Ora, siamo di fronte a una band che, pescando principalmente dai serbatoi di Tool, Black Sabbath e Jethro Tull, reinterpreta il tutto in una proposta soddisfacente e non esageratamente derivativa. La musica dei DeadSoul Tribe è basata fondamentalmente su interessanti lavori di riffing alle chitarre. Quindi ha una componente ritmica molto sviluppata, à la Tool, addobbata poi con parti melodiche. L’influenza dei Sabbath è evidente specialmente nel tono cupo e nel ritmo lento delle canzoni, e viene amplificata ulteriormente grazie al leggerissimo delay che viene applicato alle linee vocali. La presenza di parti melodiche suonate al flauto – cosa piuttosto inusuale in questo tipo di musica – richiama automaticamente alla mente Ian Anderson.

A Murder of Crows, pur non facendo gridare al miracolo, è un disco più che valido ma, soprattutto, si fa ascoltare volentieri. Ritornandoci sopra dopo anni che non lo ascoltavo, il primo pensiero dopo averlo ripassato per intero è stato: “Adesso me lo metto nella pennetta per sentirmelo un paio di volte in macchina”. L’accoppiata iniziale Feed Part I: Stone by Stone e Feed Part II: The Awakening introducono bene quello che sarà poi il leitmotiv generale del disco, che alterna sezioni strumentalmente e vocalmente più morbide ad altre decisamente più energiche, senza disdegnare veri e propri crescendo musicali ed emozionali.

Ascoltare The Messenger aiuta a capire meglio come si possa fondere in un unico brano un riffing ispirato ai Black Sabbath e un lavoro di batteria di stile totalmente distinto, più dinamico e variegato. Da questo punto di vista, sebbene l’intera band si componga di musicisti assolutamente validi, è proprio il batterista che spicca su tutti in quanto a perizia esecutiva. Some Things You Can’t Return è forse il pezzo più sabbathiano del lotto, comandato specialmente da quel modo di suonare la chitarra – e cioè un riff azzeccato, sostanzialmente – sopra una linea di basso che incede cupa lungo tutta la durata della canzone. Caratteristiche che troviamo anche in Angels in Vertigo, sebbene con ritmiche più sostenute e una maggior fantasia della sezione ritmica.

Totalmente distinto il mood della successiva Regret, che si apre con un riff di chitarra e pianoforte a ricordare soprattutto il rock anni ’70, sensazione amplificata dalla scelta dei suoni della linea vocale. Brano di presa immediata e senza dubbio uno dei più riusciti dell’intero disco, in completa opposizione a Crows On the Wire, che è invece un pezzo più arduo, che gioca sulla continua evoluzione delle sue sezioni musicali, sul loro contrasto, già evidente quando la dissonanza dell’incipit si trasforma in una ritmica armonica strutturata. I’m Not Waving e Flies propongono invece un riavvicinamento alle sonorità dei Tool che invece vengono completamente abbandonate in Black Smoke and Mirrors, uno dei pezzi più belli e perfetta chiusura del disco. Senza abbandonare l’atmosfera plumbea che permea l’intero lavoro, questa è qui ottenuta facendo introdurre le parti elettrice da strumenti acustici, e non può non richiamare l’attenzione dell’ascoltatore l’assolo di flauto, decisamente raro in produzioni di questo tipo.

A Murder of Crows dei DeadSoul Tribe non è certo un capolavoro assoluto del progressive metal ma, a conti fatti, quanti dischi lo sono? È comunque, dal punto di vista compositivo ed esecutivo, una prova solida, che si fa ascoltare con piacere e che comunque non si appiattisce nello scopiazzamento di cose già sentite. (Bartolo da Sassoferrato)

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