Avere vent’anni: SLEEP – Dopesmoker

Nel 1996 tre giovani metallari amanti dei cannabinoidi vengono messi sotto contratto da una grossa etichetta discografica. È l’occasione giusta per mettere in pratica un’idea alla quale stanno lavorando da ben quattro anni. Il loro obiettivo è registrare un album formato da un unico pezzo della durata di oltre un’ora che narra la storia del pellegrinaggio di una fantomatica setta devota al culto della marjuana verso una terra promessa fatta di riff, amplificatori e (ovviamente) erba a profusione. Il tutto ambientato nei luoghi sacri della Bibbia e infarcito di un parallelismo costante tra l’amata foglia verde e simbolismi religiosi assortiti. Per tradurre in pratica questa grande ideona spendono l’anticipo di 75.000 dollari in loro possesso per acquistare della strumentazione e amplificazione vintage e soprattutto ingenti dosi di erba che dovrebbero servire a favorire il processo creativo. Nel giro di sessioni ammantate di leggenda (l’ingegnere del suono Billy Anderson afferma che il volume era talmente alto che non era fisicamente possibile stare nella stanza dove venivano registrate le chitarre) ne vengono prodotte varie versioni ma nessuna di esse viene considerata pubblicabile dalla casa discografica. A quel punto la band si scioglie e tanti saluti. Il batterista Chris Hakius qualche tempo dopo si ordinerà anche monaco ortodosso o qualcosa del genere. sleep Gli elementi per la cialtronata ci sono tutti, e in effetti potrebbe tranquillamente sembrare la sceneggiatura di una commedia adolescenziale americana, una versione alternativa di Airheads o uno spin-off di Wayne’s World. E invece è a grandi linee la vera storia dietro Dopesmoker degli Sleep (album di cui in qualche misura avevamo già parlato), ossia una delle cose migliori che vi potrebbe capitare nella vita. L’album nella sua forma più o meno definitiva vedrà la luce degli scaffali solo parecchio tempo dopo (nel 2003, da qui il ventennale) e si tratta di un disco epocale che, partendo da un’idea da fusi di testa, tramite una realizzazione metodica e rigorosa, riesce a portare la band a vette creative che non sembravano essere alla loro portata. In Dopesmoker tutte le componenti sono spinte al massimo con l’obiettivo di creare qualcosa di unico e irripetibile. Tanto per chiarire, nonostante il suo insieme monolitico non si tratta di un unico riff ripetuto per un’ora di seguito. La sua pesantezza inaudita non è immobilismo. Il disco transita per varie fasi e lo fa in maniera fluida e, passatemi il termine, sottile. Non è semplice suddividerne le varie sezioni, la “riff chart” utilizzata da Matt Pike durante le registrazioni è una buona bussola ma non riesce comunque a permetterne una suddivisione esatta in parti specifiche. Dopesmoker è a tutti gli effetti un viaggio, un procedere attraverso, i suoi passaggi evocano davvero una lunga processione e l’alternarsi di giorno e notte per giungere ad una meta finale. Da questo punto di vista l’artwork di Arik Roper dell’edizione del 2012 ne rappresenta il compendio visivo ideale ed è veramente diventato inscindibile del disco stesso. L’ulteriore e definitivo passo in avanti lo fa fare Cisneros che in questo album (e solo in questo) adotta un nuovo modo di cantare più gutturale e declamatorio che si avvicina a qualcosa che potrebbe essere quasi un canto gregoriano estremizzato; il che, come se ce ne fosse davvero bisogno, appesantisce ulteriormente e il tutto. Uno stile che non utilizzerà più, infatti dagli OM in avanti il cantante bassista si darà sì alle litanie ma in maniera tutto sommato più abbordabile.
Ovviamente Dopesmoker non è un ascolto facile come bere un bicchier d’acqua. Allo stesso tempo è anche un album che, nonostante la complessità, ripaga abbondantemente dello sforzo fatto. La sua prolissità a tratti rispecchia uno degli effetti più tipici dell’ascolto di musica dopo aver fumato: sapete quella dilatazione del tempo che sembra in qualche maniera far sembrare che i pezzi non finiscano mai? Non so se sia intenzionale o meno, ma Dopesmoker punta a farti perdere l’orientamento; dopo i primi venti minuti (tutto sommato lineari) è difficile sapere esattamente dove ti trovi, uno smarrimento costante in cui solo la ripresa del riff iniziale sembra far intravedere la meta finale e il compimento del cammino in un climax tipico delle liturgie che si avviano a conclusione. E in effetti, nel momento in cui finalmente lo stereo tace, la sensazione è simile quella del risveglio mattutino che ti riporta dove sei davvero, e non perso in quel luogo indefinito che è il sonno. Come la luce quando esci dal cinema e fuori è ancora giorno, come quando il prete annuncia che la messa è finita e si può andare in pace. Come aspettare che l’effetto del fumo lentamente svanisca. (Stefano Greco)

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