Avere vent’anni: MOGWAI – Happy Songs for Happy People

Quando si arriva al termine di un processo penale, di sovente, dopo la requisitoria del Pubblico Ministero, nelle aule di tutta Italia la discussione della difesa viene aperta da un incipit molto retorico, che viene declinato in più forme, ma che nel suo nucleo essenziale rappresenta un invito all’attenzione da parte del giudicante: Signor Giudice, sarò breve. Frase che, solitamente, si accompagna al roteare verso l’alto dei bulbi oculari del predetto magistrato, che ha già capito l’antifona di una lunghissima discussione (soprattutto quando tale incipit è declinato nella forma “cercherò di essere breve”). 
 
Io lo uso poco, ma quando lo faccio sono di parola: questa introduzione è quindi finalizzata a mettere in luce il fatto che la solidità delle argomentazioni non richiede illustrazioni particolarmente elaborate. Quindi, cari 14 lettori e mezzo, quando vi dico che sarò breve nel parlarvi del quarto album – non contando EP, singoli, cazzi e mazzi – dei Mogwai, sarò davvero di parola, perché non c’è molto da dire di un album che parla da sé e che è un capolavoro.
 
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Sì, un capolavoro, perché, se è vero che Happy Songs for Happy People non ha la carica innovativa dei primi due album, è più ragionato e “mansueto” rispetto ad altri capitoli della discografia degli scozzesi, è altrettanto vero che è il disco più coeso, compatto, maturo e quello che contiene le composizioni migliori. Ed è anche il disco più triste e malinconico di una band non particolarmente allegra, tanto che il titolo di lavorazione era Bag of Agony.
 
All’inizio ti induce in errore, portandoti a pensare di trovarti di fronte ad un altro (ottimo) album più “pop”, come Rock Action: l’inizio di Hunted by a Freak (tra le migliori canzoni mai incise dai Nostri) o Killing All the Flies, il vocoder, certi crescendo che sfociano nelle distorsioni, ma è solo un’impressione. E invece il disco, pur avendo quelle classiche “esplosioni di gioia” in mezzo al dolore che caratterizzano la musica dei Mogwai e un certo post rock, è molto più malinconico, rassegnato e luttuoso.
 
Basti pensare al requiem sintetico di Moses? I Amnt, o al momento in cui il cantato fa breccia in Boring Machines Disturbs Sleep, tra i momenti più struggenti e toccanti che la musica rock strumentale possa raggiungere (superato solo dal finale di Staràlfur dei Sigur Ròs sul finale di Steve Zissou di Wes Anderson). E quei pochi momenti realmente dissonanti e rabbiosi, come la lunga e poderosa Ratts of the Capital, vanno a chiudersi sempre in “toni minori”, senza quella epicità che contraddistingue le grandi cavalcate in stile Mogwai Fear Satan.

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Perché in Happy Songs for Happy People (pensiamo soprattutto all’accorata Stop Coming to my House) le esplosioni di “rabbia” non sono mai catartiche e non riescono a canalizzare la frustrazione a mo’ di valvola di sfogo, ma restano sempre ancorate ad una certa drammaticità. Un po’ come muoversi in avanti in delle sabbie mobili di malessere: per quanto una persona possa andare avanti, inevitabilmente comincia anche ad affondare, sempre un po’ di più, nei suoi pensieri, rimpianti, nostalgie.  Ed è per questo che Happy Songs for Happy People (titolo a dir poco beffardo) è un capolavoro: perché riesce a mettere in musica quelle sensazioni che si provano durante certe tempeste emotive dove ti senti come un naufrago in balia delle correnti e non puoi fare altro che aspettare, subire e sperare che tutto passi, perché è impossibile distrarsi o reagire.
 
Non c’è altro da dire o da aggiungere su un disco che all’epoca venne anche trattato tiepidamente da webzinari forcaioli e da turisti/surfisti del rock e che oggi, dopo vent’anni, non ha perso un briciolo della sua forza. 
 
Come vede, signor Giudice, sono stato di parola e non mi sono dilungato, perché, come ho detto fin dall’inizio, di fronte a capolavori del genere c’è poco da dire. (L’Azzeccagarbugli)

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