Nothin’ But a Good Time, un libro per rivivere l’epoca d’oro dell’hair metal

Non vi nascondo che provo una certa soddisfazione ogni volta che ho l’occasione di parlare di quello stile musicale che viene definito, non senza una punta di scherno, “hair metal”, uno dei momenti che preferisco nella storia della musica dura. Gli anni ottanta non furono certamente solo thrash, speed metal e i primi vagiti del mostro delle paludi della Florida, avvistato più volte in quel dei Morrisound Studios, ma anche chitarre colorate e dalle forme improponibili, batterie effettate e parecchio CFC, responsabile dell’allargarsi del buco dell’Ozono.

Immaginate un mondo in cui invece di rapper scrausi e senza alcun talento, la tv e la radio passano a tutte le ore dei tizi con caschi di capelli cotonati di tutti i colori che suonano a volumi improponibili della sana riffaglia con assoli che bucano i timpani, anch’essi a volumi esagerati, e che parlano di sano divertimento fottendose altamente di tutto ciò che è “politicamente corretto”. Alzi la mano quanti di voi sentendo questa descrizione non vorrebbero tornare indietro nel tempo o quantomeno riportare in auge una mentalità del genere.

La nostalgia, ma anche la riflessione su quello che questo tipo di musica/mentalità significano ancora oggi sono il tema centrale di Nothin’ But a Good Time, che citando una canzone dei Poison, riprende la formula narrativa del fortunatissimo The Dirt, oggetto di recente adattamento cinematografico e incentrato sull’epopea di uno dei gruppi più rappresentativi di quell’era, ovvero i Motley Crue.

Il cast è assai ampio e include più o meno tutti coloro che hanno contato qualcosa sul Sunset Strip o nella East Coast, e che hanno reso miliardario tutto l’indotto di un sistema che oggi non esiste più, composto da miriadi di talent scout (A&R nel gergo discografico), manager, promoter, proprietari di locali e tante altre figure dimenticate che semplicemente appartengono ad un’era che non tornerà, in cui aldilà dell’aspetto “visivo” e “folkloristico” era davvero difficile emergere senza avere almeno un minimo di talento per bilanciare l’aspetto più cartoonesco e volutamente sguaiato.

Erano anche altri tempi, in cui i Guns n’ Roses si potevano esibire in acustico ed eseguire Used to Love Her con la prima fila composta da molte ragazze ghignanti e divertite, senza rotture di coglioni e pistolotti su sessismo ed altre stronzate che sembrano essere all’ordine del giorno oggi. Tempi in cui tutto era più semplice, forse. Sicuramente era tutto più spensierato, al limite della stupidità a volte, ma sempre meglio del doversi preoccupare di ogni parola scritta o detta.

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Il libro è ovviamente fatto di aneddoti e storie raccontate dai protagonisti stessi, in uno stile che è prevalentemente quello della risposta come se si trattasse di un’intervista, in cui vengono coinvolti i vari personaggi e che si divide in capitoli più o meno ordinati cronologicamente. Si parte quindi dalla conclusione degli anni settanta, in cui i Van Halen iniziavano a prendersi il pianeta con la loro tracotante esuberanza e altri tentavano di raccogliere i frutti del proprio duro lavoro sulla scia dei fratelli olandesi. Gente come Quiet Riot, London e Dante Fox (in seguito noti come Great White).

Alcuni aneddoti sono parecchio divertenti, come quando un Jack Russell appena sedicenne e completamente stronato dal PCP tentò di rapinare una casa che gli era stata indicata come covo di spacciatori di coca e si mise a sparare all’impazzata, venendo poi giustamente prelevato dalla polizia e rinchiuso in un istituto di correzione per minorenni per appena un anno. Oppure le smargiassate di Sebastian Bach, il quale come faccia ad essere ancora vivo dopo tutti i coglioni che ha fatto girare in giro me lo dovrebbe proprio spiegare.

Sebastian Bach che sfoggia il suo tipico sobrio abbigliamento

In sottofondo tonanti riff e fulminei assoli (non ce la fate a farmi dire “tellurici” e “al fulmicotone”) di Randy Rhoads, George Lynch, Warren DeMartini, Vito Bratta e tanti altri.

Ciò che emerge sono anche le logiche di un mercato che alla fine divenne saturo, e dove tutti cercavano di ingaggiare o mettere sotto contratto i prossimi Motley Crue o Guns n’ Roses. Parabola significativa in tal senso fu quella degli Winger, mercenari assoldati allo “star system” che riuscirono a sfangare qualche milione di copie e a comprarsi una bella casa grazie alla loro “conversione”, da musicisti prodigiosi e artisti totali quali sono, al rock da classifica e alle immancabili ballad, forma artistica concepita in maniera seriale proprio in quegli anni e che serviva spesso e volentieri da traino alle uscite discografiche. Lo stesso Kip Winger è un compositore classico ed ex-prodigio del balletto, Rod Morgenstein era già noto per essere stato dietro le pelli coi Dixie Dregs, gruppo rock/jazz/prog degli anni settanta, mentre Reb Beach… Ne dobbiamo proprio parlare? Semplicemente si trovarono a fare la cosa giusta al momento giusto, e ne raccolsero i frutti.

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Come ogni racconto cronologicamente accurato si conclude con l’apice assoluto raggiunto dall’intero movimento, ovvero il maxi concerto per la pace a Mosca, che faceva già presagire la caduta del Muro da lì a pochi mesi, e in cui praticamente tutti o quasi i grossi nomi discografici del rock americano ed europeo si esibirono di fronte ad una folla entusiasta e finalmente libera di mostrare la propria passione per una musica che fino ad allora era relegata al mercato nero. In tal senso vale la pena di citare un altro divertente ricordo, ovvero quello della pitonessa Sharon Arden in Osbourne, la quale dice che sul maxi jet che partì dall’America e fece tappa in Inghilterra per raccattare i gruppi europei invitati sembrava di essere in una stanza con 200 gremlin, tale fu la quantità di droghe e bevande spiritose che circolava tra i passeggeri. Ancora una volta Sebastian Bach si distinse per il fatto che non riusciva a stare in silenzio nemmeno un secondo, indispettendo persino Ozzy, il quale arrivò a minacciarlo fisicamente.

Nothin’ But a Good Time è un bel documento di quell’era, e si conclude con la sensata affermazione che forse non fu propriamente Seattle a mettere fine ai giochi, ma più che altro il fatto che ogni anno c’era un numero sempre più nutrito di imitatori che saltavano sul carrozzone di quel tipo di musica, saturando non solo il mercato, ma anche la tolleranza del pubblico. Più fulgido fu l’astro, tanto più il rifiuto divenne violento all’aprirsi del successivo decennio. (Piero Tola)

12 commenti

  • Complimenti, Piero, per aver dato spazio ad un genere, e ad una scena, tuttora un po’ negletta dai metallari. Per qualche motivo, quando poi queste storie vengono trasposte sullo schermo, il risultato non è praticamente mai incisivo; circostanza curiosa, visto che tutti o quasi i protagonisti erano, dal punto di vista estetico, apparenza sostanzializzata.
    P.S.: nel libro si parla dei Tesla?

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  • Un vecchio glamster come me non può non averlo… lo leggerò in inglese, aspettando che Tsunami Edizioni ne pubblichi l’edizione italiana.

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  • Lo sto leggendo giusto in queste settimane, bravo Piero!

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  • Riflessione finale del tutto condivisibile.
    Si poteva dire e fare un po’ tutto con leggerezza e ingenuità perché il tempo portava via tutto, a meno che non si trattasse di cose davvero gravi.
    Oggi scrivere sui social é un po’ come lasciare ai posteri e il fatto che là fuori sia pieno di gente incollata al telefonino pronta a smuovere le truppe al primo cenno di indignazione fa il resto. Anche per questo forse il rock é diventato noioso. Gli eccessi ovviamente non sono giustificabili oggi come allora ma paradossalmente restano qualcosa di cui si parla.

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  • “senza rotture di coglioni e pistolotti su sessismo ed altre stronzate”. Ok, quindi il sessismo sarebbe una stronzata? In quale caverna vive l’autore di questa perla?

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  • “fottendose altamente di tutto ciò che è politicamente corretto” – In realtà l’hair metal è stato l’apice del politicamente corretto, una botta di anestetico per normalizzare e banalizzare il rock, che da musica di contestazione diventa megafono per l’edonismo reaganiano degli anni ’80. Un lascito che il mondo occidentale non si è ancora levato di dosso dopo 40 anni. In molti casi sono venuti fuori prodotti ben confezionati, ma sul medio/lungo periodo assolutamente deleteri. Il vuoto pneumatico degli anni recenti, nasce da questa roba qui.

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