Avere vent’anni: SLAYER – Diabolus In Musica

slayer-Diabolus-In-Musica

Ho passato le vacanze della mia infanzia in un campeggio immerso nella Maremma che si chiamava Riva Verde. Piena macchia mediterranea, un mare splendido ma soprattutto pochi cristiani a rompere i coglioni: in sostanza, l’unico modo per farmi piacere una vacanza in riviera. Capitava spesso di ritrovarsi davanti, attraversando i sentieri che portavano alla spiaggia, animali come la volpe, l’istrice o la più rara faina, un mammifero predatore appartenente alla famiglia dei Mustelidi. Poi quello spettacolo di campeggio chiuse. Gli anni successivi li ho trascorsi sempre al mare, ma in Romagna e per la precisione a Pinarella di Cervia. Ombrelloni ovunque, bambini che urlavano, chiattone in costume da due pezzi per favorire la fuoriuscita della trippa e di tutte le sue pieghe. Non di certo il mare, che era una merda, ma due sole cose ricordo positivamente dell’estate del 1998: le partite a beach volley, e gli Slayer. Ricordo che avevo conosciuto un gruppetto di ragazzi, alcuni dei quali erano gli stessi della pallavolo, fra i quali c’era chi condivideva con me la passione per il metal. In sostanza si trovò questa bancarella che vendeva cassette, e ci serviva del carburante da buttare dentro a uno di quei grossi stereo anni novanta che pensavo esistessero soltanto in TV. Era enorme, ce l’aveva uno di loro e fu utilissimo a combattere, denigrare e repellere quegli altoparlanti con cui il Bagno Lella ci bombardava a suon di Vengaboys, Gimme Love di Alexia e tant’altro. In poche parole, quello che sarebbe stato considerato per anni a venire il più brutto disco degli Slayer, fu per settimane intere la nostra unica ancora di salvezza marittima contro gli esseri umani e il torbido, puzzolente mare Adriatico. Oltre al crescione, naturalmente. 

Con Diabolus In Musica la band di Tom Araya fece percepire per la seconda volta consecutiva un distacco netto dalle sonorità di un disco precedente, nuovamente lontano quattro anni. Escludendo quello di cover punk-hardcore, ovviamente, che all’epoca mi rifiutavo di ascoltare perché avevo deciso così, nonostante il singolo I Hate You mi prendesse una cifra. Così come tra Seasons In The Abyss e il successore correva appunto un abisso, anche tra Divine Intervention (magnifico, sottovalutatissimo, gli dedicherò una stele celebrativa sotto casa al costo di fare incazzare tutti i condomini di Sesto Fiorentino) ed il qui presente fu una sorta di rivoluzione. Nei suoni innanzitutto, prosciugati e ridotti al minimo essenziale, e ripuliti in eccesso anche in sfavore dell’eccellente muro di bassi che era stato generato nel 1994, e con un Bostaph stavolta meno sotto ai riflettori e più al servizio delle canzoni. E fu rivoluzione nello stile, che accennava all’hardcore – emblema assoluto del successivo God Hates Us All – ma non lo teneva ancora in vetrina nella maniera più spavalda possibile. Ed un brano come Death’s Head ne fu l’esempio lampante, con la sua meravigliosa e rocambolesca evoluzione nel finale.CcvcEDNUkAICGyG

Diabolus In Musica, per quanto nasca profondamente minimale è strutturato in pratica in tre parti equamente distribuite: pezzi veloci come l’opener Bitter Peace, che all’epoca fece incazzare un po’ tutti, tacciata di ricalcare l’incipit del classico Hell Awaits – a mio avviso una colossale stronzata, ma in non pochi la sostenevano – oppure le ottime Scrum Point; quindi mid-tempo più oscuri di quelli del classico del 1990, o se vogliamo leggermente paragonabili a 213 di Divine Intervention – come Desire – e per finire i brani che costituirono il pomo della discordia del momento, facendo parlare di nu metal e quant’altro mentre King si accingeva ad incensare gli Slipknot in ogni intervista dei futuri tre o quattro anni. In realtà eravamo tutti a scapocciarci sopra, e non dimenticherò mai né l’incalzante Stain Of Mind, né Love To Hate con le sue linee vocali praticamente rappate e i suoi dirompenti bassi. Il problema di Diabolus In Musica, oltre al fatto che a freddo, trascorsa quell’estate, iniziai ingiustamente a denigrarlo pure io, è che ci sono quelle due o tre canzoni che – una volta rimosse – lo avrebbero snellito e rinvigorito di una migliore continuità. Pensate ad Overt EnemyIn The Name Of God, collocatele in uno di quei magnifici dischi di b-side che uscivano un tempo, e il gioco sarebbe bell’e fatto. L’altro problema, forse, è una certa mancanza di dinamismo nei brani: o sono strutturati così, o sono in quell’altra maniera e forse Perversions Of Pain è l’unica che prova in qualche modo a non ricalcare uno schema del tutto telefonato. E la adoro.

In ogni modo, qualche anno fa ho ricominciato regolarmente ad ascoltarlo e lo considero il loro penultimo album di assoluto valore. Sicuramente inferiore ai predecessori, non lo metto in discussione, ma di un’altra stoffa rispetto alla robetta da pilota automatico che ci hanno propinato a partire dalla reunion con Dave Lombardo, sino all’ultimo e insostenibile Repentless. E poi, faceva abbastanza chiasso da coprire gli altoparlanti di una spiaggia. (Marco Belardi)

4 commenti

Lascia un commento