ANAAL NATHRAKH – Passion (Candlelight)

Più o meno una decina d’anni fa ero piuttosto in fissa con Dodheimsgard e, soprattutto, i Red Harvest, che in quel periodo se ne uscivano con quella mazzata tra capo e collo che era Sick Transit Gloria Mundi. Poi arrivò un mio amico e mi fece ascoltare The Codex Necro e mollai seduta stante gli altri per convertirmi al sacro verbo di Irrumator. Per ragioni che non sto qui ad illustrarvi, li ho un po’persi di vista nella fase centrale della loro carriera per ritrovarli solo di recente con In the Constellation of the Black Widow. Bel disco, per carità, però visto che era passato qualche anno dal primo album, mi sarei aspettato qualcosa di più vivace e che desse lustro al concetto di evoluzione in campo black metal (o industrial black metal, oppure in typeyourgenrehere metal) tenuto conto della statura dei personaggi in questione.

Passion esce a due anni di distanza e si avvale di una produzione con tutti i crismi del caso, suoni ipercompressi, chitarre che ti entrano nel cervello come gli spilli di Pinhead ed il consueto alternarsi di grida sguaiate e toni epici su una drum machine sparata alla velocità della luce. Vi invito, però, a fare un giochino che semplifica di gran lunga la recensione e mi risparmia un’analisi track by track che in casi come questi si riduce ad una matta e disperatissima ricerca dei sinonimi di “brutale”: create una compilation con i dieci pezzi di ITCoTBW e i dieci di Passion, mettete la riproduzione casuale e trovate le differenze, se ci riuscite. Del resto, almeno per quello che mi riguarda, gli Anaal Nathrakh sono come il tizio che ha tirato la torta in faccia a Rupert Murdoch, ovvero arrivano all’improvviso, fanno un gran casino e per qualche tempo li porti sinceramente nel cuore. Poi, passata la sbornia, te li dimentichi completamente fino al disco (o alla torta) successivo.

Paragoni gastronomici a parte, sento l’esigenza di spezzare una lancia in favore del duo inglese perché, se è vero che gli si può imputare un sostanziale immobilismo, è pur vero che il loro mestiere di spianatori di fondischiena lo sanno fare come pochi al mondo. Semmai si potrebbe obiettare che venti euro per trentasette minuti di musica sono dolorosi da cacciare fuori in tempi come questi, ma per chi ha visto elargire ingaggi miliardari a Bartelt e Fabio Junior, il concetto di “soldi gettati al vento” assume significati sempre nuovi ed originali. Un acquisto comunque obbligato per chi già li conosce e li ama, con la consapevolezza che non c’è né un grammo in più né un grammo in meno della quantità di odio tradotto in note che caratterizza ogni loro uscita. Chi, invece, fosse incerto e dubbioso, provi ad ascoltare Le Diabolique est l’ami du Simple e poi mi faccia sapere che fine hanno fatto i Red Harvest. (Matteo Ferri)

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