Musica da camera ardente #3

IF YOU’RE NOT INTO METAL, YOU ARE NOT MY FRIEND!

A dispetto del messaggio – secondo me – intrinseco al marmoreo gesto del ministro più classic heavy metal che la Repubblica Italiana abbia mai avuto e a dimostrazione del fatto che noi non chineremo mai il capo di fronte alle volgari minacce – come questa – che troppo spesso provengono dai cosiddetti “poteri forti”, ci accingiamo a ciarlare di una sfilza di gruppi che da alcuni potrebbero essere categorizzati come “wimps & posers” nel modo più eterogeneo possibile come solo su Musica da camera ardente è possibile.

Allora lasciamo che il messaggio nichilista si insinui dentro i vostri più oscuri recessi chiamando in aiuto gli SPIRITUAL FRONT, oleoso lubrificante vaselinico preparato all’uopo per voi. Il marcio e la decadenza morale sprigionata dai costumi guasti e dalle pratiche traviate dei nostri romani governanti, santi vicari e capi popolo non potevano costituire migliore acqua di coltura e nutrimento per il turbato e coinvolgente Rotten Roma Casinò. Esco per un attimo dai panni del recensore per vestire quelli del penitente eretico dolciniano Salvatore de Il Nome della Rosa per non aver dato la giusta importanza a questo lavoro nei tempi adeguati: essendo uno dei pochi in redazione che ascolta neofolk et similia mi devo cospargere il capo di cenere. Penitenziagite! Ora che ho la schiena percorsa da indelebili piaghe posso affermare, senza esagerazione alcuna, che Rotten è un capolavoro a tutti gli effetti. Noi italiani amiamo tanto la ricerca esterofila quando invece non conferiamo le giuste virtù al vicino di casa, come se ci fosse un rapporto di proporzionalità diretta tra la distanza geografica e la qualità di ciò che si ascolta. Il precedente, corale ed orchestratico, Armageddon Gigolò sprigionava una carica di erotismo carnale e claustrofobico senso di fine imminente, alternato da passaggi musicali più leggeri, simil pop.

penitentiam agite…

Superarlo in qualità sarebbe stato arduo da concepire ma così invece è andata secondo me. Rotten ne rappresenta un’evoluzione naturale pur sfilacciandosi rispetto al precedente nelle caratteristiche che sembravano prima più marcate, ma conservando l’alone orchestratico e quel cipiglio sensuale del tanghéro. Provo a spiegarmi meglio. In Armageddon era preponderante l’uso degli archi (con i componenti dell’orchestra di Morricone – che coadiuvano ancora oggi gli SF), la sincope argentina, le melodie dolci e veloci alla bandoneonistas e le aperture progressive di chitarra, come ad esempio nella complessa Bastard Angel, o le brecce liriche neofolk nella parte finale della stupenda Slave, o i passaggi western di The Shining Circle, o ancora un certo citazionismo spiccatamente nickcaviano come in Ragged Bed. Sono partito da Armageddon per spiegare Rotten perché tutto ciò detto è ora, se possibile, meglio interiorizzato e sedimentato in modo più personale. Rotten Roma Casinò è una romantica e convincente interpretazione della darkwave e del dark cabaret mittle europeo ed è sostenuto da un pubblico sempre crescente, anche al di fuori degli italici limes. Mi piacciono inoltre per i colti riferimenti cinematografici nonché per quelli poetici (avendo dedicato una versione unplugged di My Erotic Sacrifice per un tribute album a Pierpaolo Pasolini – sì, sono uno snob del cazzo). In generale diffidate da chi non ama il cinema e la letteratura e soprattutto… Penitenziagite!

Passiamo da una, seppur sempre più affermata, nuova realtà ad una pietra miliare del genere, i CURRENT 93. Chi di voi ama il genere è ben consapevole dell’importanza storica di codesto nobile nome che, a braccetto con Death in June e pochi altri, ha posto negli anni ’90 le basi e sviluppato i canoni del neofolk e del dark ambient. Mi spiace dirlo ma con Baalstrom, Sin Omega dell’anno scorso non c’eravamo proprio: pieno zeppo di riferimenti autobiografici e minimalismo portato alle estreme conseguenze e niente a che fare nemmeno con la visione apocalittica dell’ormai lontano Imperium. D’altra parte i veri amanti dei Current potrebbero buttar giù qualsiasi cosa. Non posso dire di essere capace di far altrettanto. Quest’ultimo Honeysuckle Aeons ricalca, come il reo nel succitato film, le orme lasciate sulla neve dal passaggio del precedente per nascondere le proprie intenzioni. Mi spiace davvero e so che verrò condannato dall’Inquisizione: <<diciamo, pronunciamo, sentenziamo, dichiariamo, che tu Charles suddetto, per le cose dedotte in processo, e da te confessate, come sopra, ti  sei reso a questo Santo Uffizio veementemente sospetto di eresia>>.

Uscivate pazzi per The Angel and the Dark River? Vi siete innamorati con The Light At The End Of The World? Avete superato gli imbarazzi con For Lies I Sire? Bene, allora sarete pronti a riazzerare tutto e ricominciare d’accapo. Evinta, ultima grossa produzione targata MY DYING BRIDE, è come un bel peperone imbottito che ti si piazza sullo stomaco: buono da morire ma altamente indigesto. La storica ed immortale band inglese che, pur non avendo mai condotto il sottoscritto ad esaltazioni orgasmiche, posso con indubbia reverenza annoverare tra i più rispettati e mediamente soddisfacenti baluardi del genere doom. Nella loro carriera infatti hanno sempre marcato il terreno musicale del triste e del depressivo in un modo assolutamente personale. Il soud dei MDB è riconoscibilissimo e non farseli piacere è un peccato mortale e un’offesa nei confronti dei più alti studi sulle manie depressive ed altre incresciose malattie dell’umore. Evinta vuole essere un modo per festeggiare in tutta pace e tranquillità il loro primo ventennale di amore per la sana musica doom, a cui ci auguriamo possa seguirne almeno un altro. Certo dopo aver ascoltato questa interminabile afflizione di oltre due ore faccio fatica a figurarmeli brindare e ballare giulivi al ritmo di pezzi come A Hand of Awful Rewards o come She Heard my Body Dying, non proprio due tarantelle. Ma tant’è illustri lettori: Evinta vuole deprimervi e lo fa in grande stile prendendo melodie tratte dal loro produttivo curriculum reinterpretandole nel più demoralizzante dei modi. Ma che tocco hanno questi ragazzi, dico davvero: se qualcun altro mi avesse proposto una roba del genere gliela avrei tirata dietro senza esitare. Questo bel peperone imbottito ha avuto una lavorazione lunga 15 anni, ammettono i nostri cuochi, quindi non può non avere il sapore dell’autocitazionismo. Consiglio dunque di non scartarlo apriori anche perchè il cofanetto super figo deluxe da tre cd con 64 pagine di booklet, che contribuisce ad elevare ulteriormente il peso specifico di tutta la faccenda, è una chicca che il vero fan non può lasciarsi sfuggire. Quando lo comprerete però badate bene a chiudere tutte le finestre di casa, soprattutto se abitate ai piani alti, e a tenervi stretta la voglia di vivere.

Come è nello stile di questa rubrica chiudiamo con un accenno a qualcosa di totalmente diverso. Ora che ci penso attentamente credo che in effetti vi siano alcuni punti di contatto tra quel mondo sopra descritto e i RADIOHEAD. Lasciate perdere l’attenzione mediatica sempre sovradimensionata che ci annoia continuamente con cose tipo di che colore era il catarro di Thom Yorke o qual era il livello di bilirubina nelle ultime analisi delle urine. I punti di contatto concettuali sono tanti: minimalismo, astrattismo, sperimentazione, atmosfere ambient/trance, una certa dose di smarrimento ed angoscia. Tutta vita insomma! The King of Limbs è un importante ritorno. È ipnotico, semplice, diretto, freddo, matematico e distaccato. Usatevi una cortesia e provatevi nell’ascoltarlo. (Charles)

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