Splendidi quarantenni: ANTHRAX – Spreading the Disease
Sicché quel coglionazzo di Neil Turbin aveva ottenuto la testa di Dan Lilker. “Fu molto eccitante fare un disco, peccato che fui buttato fuori dalla band tre giorni dopo la sua uscita“, mi raccontò il futuro bassista dei Brutal Truth in un’intervista, parecchi anni fa. Scott Ian raccontò che il cantante di Fistful of Metal era più interessato all’apparenza che alla musica e quindi non tollerava che sui minuscoli palchi sui quali suonavano gli Anthrax all’epoca ci fosse… Qualcuno più alto di lui. Nessuno sopportava Turbin e qualche mese toccò a lui essere cacciato. Alle quattro corde fu reclutato, in mancanza di idee migliori, il giovanissimo figlio della sorella del batterista Charlie Benante. “La prima traccia che incisi fu Lone Justice. All’inizio le mani mi tremavano troppo dall’emozione per riuscire a trovare la plettrata”, è il ricordo condiviso da Frank Bello nel lungo documentario a puntate disponibile sul canale YouTube del gruppo. Era appena nata quella che sarebbe divenuta la più grande sezione ritmica della storia del thrash metal.

Il cantante invece non si trovava. Un giorno si manifestò in sala un tizio del New Jersey che si sarebbe rivelato una specie di Dan Nelson ante litteram. Quando ci fu l’occasione di suonare di supporto agli Scorpions se la fece sotto e mollò. Gli altri invece avevano ambizioni, enormi ambizioni. Era il 1985 e tutto sembrava possibile. “Non volevamo suonare le cover dei Judas Priest, volevamo diventare i nuovi Judas Priest”, raccontò ancora Scott. Intanto si erano ritrovati in sala di incisione, dopo aver firmato un contratto con la Megaforce, senza nessuno da mettere dietro il microfono. Per disperazione lo stesso Ian aveva pensato di provarci lui. Poi un produttore locale consigliò un tizio che di primo acchito era apparso improponibile. Vestito in stile glam, aveva portato qualche cover di Journey e Foreigner, non proprio il genere su cui si puntava. Ma era troppo bravo per lasciarselo scappare. “Avevamo trovato il nostro Halford, il nostro Dickinson, il nostro Dio”, è il ricordo di Ian sulla prima audizione di Joey Belladonna.
Avere un cantante con un’estensione vocale e un’impostazione simili spinse il gruppo a un’evoluzione radicale. Fistful of Metal era speed accelerato, un buon lavoro ma nulla che lasciasse presagire quello che sarebbe successo dopo. Come i Megadeth, gli Anthrax esplosero al secondo disco. Lontani dalla Bay Area, avevano sviluppato un suono unico, dove si scontravano non solo la Nwobhm e il punk, radici della scuola californiana, ma pure l’hardcore di New York e l’hard rock americano Come aperitivo, esce Armed and Dangerous, una mezza ballad.

Quando parte A.I.R. il rivoluzionario uso della doppia cassa di Benante colpisce subito allo stomaco. Ci sono ritornelli radiofonici e chitarre acustiche ma le velocità medie sono frenetiche. Non quanto un Reign In Blood, chiaro, ma Spreading the Disease ha avuto un ruolo importante nel fissare nuovi standard di violenza sonora. La frenesia di Gung-Ho, le particolari strutture di Madhouse. Sul fronte dell’estetica e dei contenuti, invece, gli Anthrax non avrebbero potuto essere più diversi dagli altri tre Quattro Grandi. Hetfield e Mustaine erano maschi alfa all’ennesima potenza, Araya era il vicario del Diavolo. Gli Anthrax, al confronto, apparivano come normalissimi ragazzi della periferia di una città troppo grande, dispersiva e tentacolare per consentire di prendersi troppo sul serio. Gente dall’aria affabile e un po’ impacciata, con cui i fan potevano identificarsi facilmente. Due ebrei e tre italiani del Queens, non il fondo ma manco il vertice della catena alimentare, per capirci. E non erano certo degli strafighi. Scott Ian era un nerd appassionato di fumetti, film dell’orrore, libri di Stephen King et cetera. E riversò tutto questo immaginario nei testi, seppure in misura minore che su Among the Living, con cui gli Anthrax avrebbero codificato il loro suono. Il fascino di Spreading the Disease, che continuo a preferire, sta però anche nel fatto che mancasse ancora una direzione stilistica precisa: una The Enemy non l’avrebbero scritta più.
Terminate le registrazioni, lo studio restò disponibile per un altro paio di giorni. Scott e Charlie fecero una rimpatriata con Dan e chiamarono un loro amico cantante, tale Billy Milano. Il risultato fu un disco che, paradossalmente, si conquistò una rilevanza storica ancor maggiore: Speak English or Die degli S.O.D. Ma questa è un’altra storia. (Ciccio Russo)
