Avere vent’anni: FOO FIGHTERS – In Your Honor
Penso che il mio amore per i Foo Fighters non sia mai sbocciato del tutto. In principio era come se volessi dar continuità all’esistenza dei Nirvana, e li giustificai. Il loro secondo album era tutto sommato molto bello, Everlong una canzone assolutamente generazionale; il terzo teneva botta piuttosto bene.
In quella fase mediana cominciata con One by One cominciai ad averli sulle palle perché non scrivevano più dischi, bensì tormentoni. Avevano come obiettivo portare una canzone in radio per mesi, a discapito del resto: ci riuscirono con All my Life che era una gran canzone, ma allo stesso tempo ascoltare per intero One by One risultava una specie di incubo a occhi aperti. I più ottimisti sottolineavano che finalmente, grazie all’innesto di Chris Shiflett, la line-up aveva acquistato una certa stabilità. Il problema era proprio quello, appunto, che non c’era più Pat Smear, e questi fan dell’ultima ora festeggiavano a pugni alzati, tipo i milanisti in erezione perché il bilancio è per il terzo anno consecutivo in positivo.
In Your Honor del 2005 fu un album tutto sommato più gradevole del precedente, ma uscì annientato dalla estemporanea megalomania del loro leader. Dave Grohl scrisse ore di musica inedita e ne estrasse una ventina di canzoni, la metà nel classico stile dei Foo Fighters, le restanti acustiche. Una fra queste era già stata edita a inizio anni Novanta, Friend of a Friend.
Inoltre il numero di ospiti uscì fuori controllo. One by One aveva ospitato Brian May in una traccia, Tired of You. L’album seguente avvierà questo protocollo ferale per cui in ogni album, un po’ alla stregua di Songs for the Deaf, figureranno innumerevoli musicisti di innumerevoli e rinomate band. È una cosa che personalmente non tollero. Vaffanculo gli ospiti, la band è la band ed è una cosa sacra, e l’album è una fotografia di quel preciso momento della sua carriera. Tutti gli altri, pertanto, dovranno rimanere fuori dai coglioni, Brian May incluso.
Ritroveremo pertanto John Paul Jones in odor di Them Crooked Vultures, Josh Homme, Rami Jaffee in attesa d’essere assunto a tempo indeterminato (all’epoca un quartetto, oggi i Foo Fighters contano tante presenze quanto l’organico di Ikea, o i Cradle of Filth), e perfino Norah Jones. Probabilmente perché aveva lo stesso cognome di John Paul Jones.
Le prime quattro del disco erano oggettivamente buone, su tutte Dead on Arrival, abbreviata in DOA. Best of You uno stucchevole tentativo di replicare l’empatia di Everlong, e pertanto la odiai sin da principio. Era quello il tormentone, il pezzo da tenere fisso in rotazione almeno fino all’uscita di The Pretender. Arrivato a metà, il disco si inabissava nell’inutilità, fatta eccezione per qualche rara eccezione tipo la radiofonica Resolve. Nel secondo compartimento, quello acustico, quello con tantissimi ospiti, tutti si ricordano della sola Miracle e ci sarà probabilmente un motivo.
La fine dei Foo Fighters intesi come band “post-grunge” era già avvenuta in seguito all’uscita di There is Nothing Left to Lose. L’inizio degli stessi in quanto espressione dell’ego smisurato di Dave Grohl era nero su bianco, e solo il futuro rientro di Pat Smear e quella figata di Wasting Light riportarono nuovamente la mia attenzione verso di loro. Per quello che riguarda, al pari degli ultimissimi anni, il peggior periodo della carriera dei Foo Fighters. (Marco Belardi)


