Beauty meets beast: i trent’anni del debutto dei THEATRE OF TRAGEDY
Il mio primo ricordo dei Theatre of Tragedy non è legato ad un album bensì a una compilation, una delle tante Beauty in Darkness pubblicate dalla Nuclear Blast, perché dovete sapere che, negli anni ’90, noi metallari acquistavamo anche cose tipo questa o una delle varie Death…Is Just The Beginning, anche perché di solito contenevano sempre le cose migliori di un relativo gruppo ed uscivano tutte in digipak della madonna belli e curati. Il pezzo dei Theatre of Tragedy si chiamava A Hamlet For a Slothful Vassal, non a caso una delle migliori dell’esordio omonimo, che mi lasciò abbastanza di stucco la prima volta che l’ascoltai: non tanto per la parte sonora (siamo in un periodo in cui il doom gotico era già bello che sdoganato), ma per la parte cantata, con un duetto tra un classico growl cavernoso e una voce angelica e suadente dall’altra.
Questo stile fu battezzato beauty and the beast e creò una marea di epigoni nel corso degli anni, dando il La a quelle forme più leggere di gothic o love metal che dir si voglia (qui in redazione preferiamo la definizione gotico pipparolo). Volendo fare proprio i puntigliosi, qualche leggiadra voce femminile qua e là era già spuntata fuori nei due dischi che hanno coniato questo genere, vale a dire Into The Pandemonium e Gothic, anche se fungevano più da sottofondo e non erano in primo piano come invece è quella di Liv Kristine in questo disco.
Oltre all’innovativo modo di cantare, il sestetto di Stavanger si dilettava anche con un inglese arcaico (molto simile a quello utilizzato dai Cradle of Filth nei primi lavori) che era veramente una novità per l’epoca, e che verrà reso ancora più accentuato nei lavori successivi. A questo proposito molti tendono a mettere sullo stesso piano questo esordio e quel capolavoro di Velvet Darkness They Fear, indicando l’altrettanto bello Aegis come punto di svolta nella loro discografia, ma solo un sordo non si accorgerebbe delle differenze sostanziali che c’erano già tra i primi due. Il secondo era già più commerciale e improntato sul formato-canzone (una Seraphic Deviltry ad esempio qui non la trovate), mentre nel debutto siamo sul gothic doom vecchia scuola improntato su malinconiche partiture di pianoforte (praticamente onnipresente) e delicati arpeggi di chitarra che tenderanno sempre più a scemare col resto della produzione.
Inutile soffermarsi sui singoli brani, i primi cinque sono uno più bello dell’altro, ma permettetemi una menzione particolare per la meravigliosa …A Distance There Is…, nove minuti di pianoforte, violino e l’incredibile voce di Liv. La parte dal minuto 6:40 circa in poi, credetemi, è un qualcosa di veramente complicato spiegare a parole.
Un disco che si può definire a tutti gli effetti di formazione, alcune acerbità del quale verranno smussate nel successivo, che ancora oggi rimane il mio preferito della band norvegese. In realtà fino al 2002 a me i lavori dei Theatre of Tragedy sono sempre piaciuti tutti, pure quelli della svolta techno-industriale (credo di essere una delle poche persone al mondo che ogni tanto rimette su addirittura Assembly). Una band che, fino allo scazzo tra Raymond e Liv, si è sempre saputa mettere in discussione, cambiando pelle di lavoro in lavoro ma mantenendo la qualità sempre altissima. Ci sono talmente legato che i due lavori con la pur bravissima Nell Sigland non li ho proprio mai sentiti, non ce l’ho fatta. I Theatre of Tragedy per me saranno sempre e solo quelli con Liv Kristine. (Michele Romani)




controfirmo tutto (tranne Assembly, mentre Musique lo ascolto ancora). ricordo di quando lo ascoltavo mentre leggevo Devilman di Go Nagai, ed ero in un’altra dimensione.
comuque è “…a distance there is”
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Come ti capisco Michele…anche a me con questo disco si e’ aperto un mondo, da cui non sono piu’ uscito
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“Trenta? Come trenta? Non stiamo parlando forse di un sottogenere recente che al momento sta vivendo un breve momento di ‘stanca’?”
Già: la cosa più curiosa, e che credo che nessuno di noi avrebbe previsto all’epoca, è il fatto che il “Norwegian Gothic Metal” o come lo vogliamo chiamare – quello con ToT, Tristania, 3rd and the Mortal, Sins of Thy Beloved… insomma, ci siamo capiti – è stato un fulmine a ciel sereno: dopo 4-5 anni aveva espresso quasi tutto quello che doveva esprimere e gli stessi fondatori si stavano già dedicando ad altre commistioni.
Oggi, il genere, le pulsioni e l’estetica che lo animavano si direbbero del tutto estinti.
Forse incompatibili con il mondo di oggi.
Forse se i social ci permettono di scoprire l’ordinarietà quotidiana alla cassa della Coop dell’aspirante Liv Kristine o Raymond di turno, il gioco di prestigio dell’eyeliner e dei testi in inglese arcaico funziona un po’ peggio.
Forse, non ha aiutato che Hollywood abbia seppellito il filone new-age e ci abbia propinato film di guerra con maschi duri & puri per gli anni 00s, e supereroi per tutto il decennio seguente.
Comunque, dalla porta che hanno aperto Liv, Kari, Raymond, ci sono entrati, e rimasti, Nightwish, Epica e compagnia bella.
L’ho già detto: non sono sicuro che, nel complesso, ci abbiamo guadagnato.
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