Il perturbante che riaffiora: HEXVESSEL – Nocturne
Strana creatura, questa di “Kvohst” McNerney, tra le tante forse la più longeva e continuativa, pur se tra cambi di direzione talmente netti da sembrare che si siano succeduti tre o quattro complessi radicalmente diversi. Per i meno informati, gli Hexvessel con No Holier Temple avevano raggiunto un equilibrio rimarchevole tra doom, neofolk e vecchio prog. Poi la svolta psichedelica e tardo-beat, con McNerney nelle vesti di un menestrello albionico, le stesse vesti che indossava quando ebbi modo di assistere ad un loro concerto al Roadburn del 2016. Poi l’ultimissima svolta, quella di Polar Veil, nel 2023, plasmata da una pesantissima presenza di elementi black metal anni ’90. Per meglio dire, per un’ingerenza pesantissima della visione musicale di un noto musicista norvegese che comincia per “Bu” e finisce in “zum”, una specie di vissuto perturbante e irrisolto per la generazione degli anni ’90 che torna a manifestarsi a distanza di trent’anni. Ora, qua dentro non sono nemmeno la persona più titolata a parlare del noto musicista appassionato di Fiat Panda 4×4, però ho sempre pensato che la pura bellezza (manco sarebbe la parola giusta…) di tanta della sua musica abbia a che fare con qualcosa di poco manifesto, di molto più sepolto nell’inconscio rispetto all’attacco frontale di tanta musica estrema. Qualcosa che il discusso norvegese è riuscito a esprimere in musica, come nelle arti grafiche hanno saputo fare alcuni dei piu grandi pittori conosciuti degli ultimi secoli. Non date peso a questa mia affermazione estemporanea, non sono nemmeno studioso di arte. Volevo solo dire che, per me, l’affiorare decontestualizzato, apparentemente incoerente, scevro da qualsiasi affiliazione o revival spicciolo, di quelle chitarre, non stupisce più di tanto. Con la psiche non si scherza.

Ma gli Hexvessel di Polar Veil, come di quest’ultimo Nocturne che si pone perfettamente in scia (come la copertina fa capire subito), non sono una band black metal. Sono e restano l’occasione per il musicista inglese, emigrato in Finlandia, di dare la forma di canzoni dark alle sue inquietudini (o incubi), quelle più scevre da pulsioni sessuali, per le quali invece il dark rock(‘n’roll) dei Grave Pleasures resta la manifestazione privilegiata. E quindi, oggi, dopo una Opening per pianoforte, il primo pezzo Sapphire Zephyrs è un brano formalmente black metal ma incentrato sull’abituale cantato in crooning di Kvohst, al solito, tanto (ma proprio tanto) debitore della personalità del mancuniano Morrissey, sempre a proposito di controversie e di vissuti passati che si manifestano immancabilmente. La prima parte di Nocturne, ed è un disco che sfiora i sessanta minuti, è quella forse (stranamente) incentrata in maniera più ortodossa sulla modalità post-burzumiana, pur con i ritagli folk acustici e con quel cantato di cui sopra che, steso sul gelo di quei fraseggi elettrici, amplifica una certa sensazione di inquietudine. La fusione più compiuta tra le anime degli Hexvessel di oggi è rappresentata dal singolo A Dark & Graceful Wilderness, chitarre prese di peso da Belus, melodia albionica e struttura canzone, coda algida per sintetizzatori cosmici e wave.

Da quel momento comincia a dispiegarsi il campionario migliore che l’album abbia da offrire: l’epica guerresca di Spirit Masked Wolf, la pseudo-ballata coi chitarroni di Nights Tender Reckoning, l’inquietante Mother Destroyer, con la quale scavare nelle profondità black pare davvero un modo per ascendere verso una diversa purificazione. Un ulteriore brano dissonante, nell’insieme delle composizioni, è il post-metal gregoriano di Unworld, sicuramente un’espressione impensabile per chi ricordava ben altri Hexvessel. Vi dico la verità, sulle prime le partiture di Nocturne tendevano ad annoiarmi, non intravedendone subito le qualità compositive e apparendomi limitata la paletta di soluzioni cromatiche. Invece forse si tratta di un passaggio maggiormente compiuto rispetto all’immediato predecessore. Certo, non me la sentirei di consigliarlo ad un appassionato ortodosso di black metal, ma nemmeno penso che quella di Kvohst, ex Dødheimsgard, sia la mossa di un’opportunista, in un contesto in cui a volte ho l’impressione che basti accoppiare chitarre zanzarose ad un suono o un contesto che non c’entra nulla per guadagnarsi il favore delle cronache e posticini ai festival che contano (specie se ci si uniscono baracconate in costume). Ripeto, l’impressione è che sia affiorato sinceramente un vissuto insopprimibile. Qualcosa di essenzialmente legato ad passato forse personale. Il disco comunque è bello, a conti fatti. (Lorenzo Centini)

Band immensa, tra le poche note liete di questi ultimi 15 anni, veramente avari di grandi novità. È vero ,come dice la recensione, c’è del neofolk, ma anche il folk elettrico anni ’60-’70 (quello di gente come Fairport convention e Steeleye span per intenderci)fa capolino spesso nei primi lavori. Forse l’unico disco debole della loro carriera è “When you’re death”. Il resto è meraviglia, ma con ” No holier temple” sopra tutti.
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