L’omaggio di Steve Sylvester ad Alice Cooper: DEATH SS – The Entity

Un album è una cosa molto importante. Non è la decina di canzoni che assembli nel momento in cui le hai scritte tutte, ma la fotografia di quel preciso momento della carriera. Gli anni Ottanta e Novanta ci hanno insegnato che a rendere speciale l’album non fossero tutte e dieci le canzoni che lo componevano ma che le due o tre più importanti, da sole, avrebbero potuto consegnarlo alla storia, per sempre. L’ultima volta che i Death SS ne hanno pubblicato uno è stato quattro anni fa, in un momento di grande trambusto. Si proveniva innanzitutto dalla Pandemia; una delle line-up più longeve che Steve Sylvester avesse mai imbastito stava per sfasciarsi e Zora era, in sostanza, l’unica canzone che avrei ricordato di un tentativo sempre più marcato di ritornare – finalmente per restarci – al metal tradizionale.

Veniamo dunque a The Entity, il nuovo Death SS. Posso tranquillamente affermare che i suoi due predecessori fanno parte di quel filotto di pubblicazioni che proprio non mi hanno fatto innamorare e che annovera, oltre a Ten e Rock ’n’ Roll Armageddon anche i più datati The 7th Seal e Humanomalies. Dischi tutt’altro che brutti in mezzo ai quali ha avuto luogo la pubblicazione dell’ottimo, eterogeneo e in qualche maniera già classico Resurrection. The Entity, in una ipotetica griglia di partenza, sta esattamente a metà fra i summenzionati quattro titoli e coloro che amo, subito sotto, appunto, all’ottimo Resurrection. In comune con l’album del 2013 c’è la sua incredibile varietà. Le canzoni di sono legate da un unico comune denominatore eppur guardano in diverse direzioni, non appesantendo mai l’ascolto.

Ciò che mi piace di The Entity è che suona sfacciatamente hard rock. Nonostante questo, spiccano i momenti prettamente classici e oscuri. Per quanto una Justified Sinner sia assolutamente godereccia, preferirò ad essa l’apertura affidata ad Ave Adonai – ennesima citazione di Aleister Crowley – e sono certo che non cambierò idea. Ave Adonai è il pezzo che mi aspetto dai Death SS e che perfettamente funziona in mano a loro. Questo è il loro mestiere, il resto è mansione transitoria, un qualcosa che udiamo dai tempi in cui Steve Sylvester giochicchiava con l’hard rock d’annata in Bad Luck, e qui casca l’asino.

Steve Sylvester ha avuto due chitarristi capaci di cimentarsi con quelle sonorità e di uscirne vincitori molto tempo fa: Al Priest e Jason Minelli. Alcuni ricorderanno da che parti virarono le sonorità ai tempi del singolo Straight to Hell. L’hard rock è una cosa particolarmente seria, al contrario di quel che possano pensarne molte persone. E il mestiere del chitarrista hard rock lo è ancor più. Il chitarrista nell’hard rock è tutto il comparto musicale; poi puoi metterci il Bob Daisley, Cozy Powell o Vinny Appice della situazione sullo sgabello e andrà tutto benissimo, ma il chitarrista in quel caso è il chitarrista. Non ci sarà mai nessun Dave Lombardo a stargli sopra. Il paradosso è che Steve Sylvester non è un cantante tecnicamente dotato, ma trasmette molta passione e si è saputo calare molto meglio nella parte del cantante hard rock degli ottimi turnisti che hanno preso posto in formazione.

Credo, in sostanza, che la formazione attuale sia fatta da interpreti che non ne sbagliano una – lo abbiamo visto al Viper Theatre pochi mesi fa – ma che allo stesso tempo non lasciano il segno. Ci sono un paio di assoli di chitarra pazzeschi sparsi in scaletta, ma già non me li ricordo. Al De Noble e gli altri membri uscenti non erano certo paragonabili al quintetto presente su Heavy Demons o sui titoli precedenti, ma in qualche modo credo avessero un maggior numero di frecce all’arco dal punto di vista della composizione. Oggi vedo nei Death SS un duo composto da Steve Sylvester e Freddy Delirio più alcuni turnisti. Vorrei, francamente, ritornare a vedere una band. E dati i tempi che corrono non mi dispiacerebbe veder tornare all’opera qualche musicista storico in pianta stabile, essendo stati Ross Lukather e Oleg Smirnoff gli ultimi due, in ordine cronologico, che in tal senso hanno lasciato un’impronta vera e propria.

In questo album apprezzo molto, oltre alla sua opener, Two Souls, spirito rock calato in una veste pressoché power metal. Direi che è senza dubbio la mia preferita. Poi, a cavallo fra le ricorrenti citazioni attitudinali dell’Alice Cooper che fu, direi che la prima metà di The Entity in linea di massima funziona un po’ tutta, inclusa la prova della balladta con Out to Get Me. Non una Family Vault ma comunque una buona prova. L’altro lento, Love Until Death, non mi è piaciuto per niente.

Death SS al Viper Theatre di Firenze – Ph: Marco Belardi

Nel finale The Entity si riprende tantissimo, tra la canticchiabile Cimiteria e la conclusiva Evil Never Dies ancora una volta in vena di un ottimo power metal. Ottime le citazioni: la voce narrata di Where Have You Gone? ritorna quasi in principio all’album, e Dr. Jekill & Sister Hyde tira in causa il classico dell’horror anni Settanta Barbara, il mostro di Londra nel suo titolo originale. La copertina è chiaramente un rimando scolorito alla più iconica di tutte, Black Mass, e aggiunge il tema del dualismo, che altro non è che l’ingrediente alle fondamenta del concept.

Concludo con i suoni, una mia particolare fissazione da sempre. Si è parlato tanto di Tom Dalgety, già produttore di Prequelle dei Ghost, Pale Communion degli Opeth e tant’altra roba che spicca in un curriculum vitae. In realtà Tom Dalgety ha soltanto mixato l’album agli Psalm Studios, in Inghilterra. EÈ stato registrato da Freddy Delirio allo FP Recording Studio, a Lucca, e ci tengo a fare un appunto. I dischi “recenti” dei Death SS raramente mi piacciono per il loro suono, spesso e malvolentieri moderno e oltre misura artificioso. Diciamo che con Ten e The Entity si è cercato prima di far uscire fuori gli strumenti, spogliandoli della loro compressione, con un risultato prima molto impastato, per poi ripulire il tutto, azzerando, di fatto, il rischio d’errore. The Entity suona formalmente perfetto, ma la batteria ad esempio non esce più. Non ha un suono che riesca in qualche maniera a contraddistinguerla.

Negli anni Novanta, Steve Sylvester si era rivolto ai produttori di Cradle of Filth e My Dying Bride prima, Keith Appleton e Robert Magoolagan, e poi a Neil Kernon per incidere Panic. Non mixarono il disco, lo registrarono loro. Il risultato fu manco a dirlo eccellente, soprattutto nel secondo caso. Se vuoi ottenere una produzione clamorosa e affidi il mixaggio a Tom Dalgety, devi comunque partire dalla migliore registrazione possibile. E per quanto Tom Dalgety abbia svolto un buon lavoro, al suono di The Entity, che rappresenta comunque un passo in avanti rispetto a quello del suo predecessore, manca qualcosa. Gli manca lo spessore dei singoli strumenti. È come dire che se realmente credi in un disco, devi credere in ogni passaggio della sua realizzazione.

Certamente una buon uscita, The Entity non sarà tuttavia ricordato per la presenza di singole canzoni capaci di renderlo memorabile, né ha cavalli da battaglia che desidereremo ascoltare dal vivo. Ma è comunque un vistoso passo in avanti rispetto a quel che si è visto in precedenza: bene così. (Marco Belardi)

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