Avere vent’anni: KLIMT 1918 – Dopoguerra

La musica è una macchina del tempo, perché basta chiudere gli occhi per catapultarti indietro ad epoche che non hai mai vissuto, o a momenti precisi della tua vita. In questo caso, ovviamente, ci sono album che possono ricordarti un momento, altri un’occasione particolare, altri ancora, pochi, che sono davvero una madeleine capace di portarti alla mente visioni, luoghi, un vissuto in modo così fulgido da poterli quasi rivivere. Dopoguerra, insieme a pochi altri album, è i miei vent’anni. Come avevo scritto per ItalianoChitarra è uno dei miei dischi italiani preferiti in assoluto, quello che più ricollego ai miei primi anni a Roma, dove ormai vivo da oltre due decenni e dove ho sempre voluto vivere. E se chiudo gli occhi rivedo Montesacro, i miei amici dell’epoca che sono diventati amici della vita, i pomeriggi passati a non fare niente e quelli trascorsi a pensare al futuro, l’ansia e la spensieratezza che vanno a braccetto, i concerti, le “via crucis” dei negozi di dischi, i forum, le webzine, il Circolo degli Artisti, tante cose belle e brutte.

Non è facile, quindi, essere del tutto imparziali per un disco del genere, che ho anche visto nascere, seguendo le registrazioni tramite Roberto Angolo, inviato speciale all’epoca e di cui ho festeggiato l’uscita con una cena casalinga dai diretti interessati, per ragioni che neanche ricordo, quando scrivevo per la defunta HMP. E non è facile essere imparziali anche perché il secondo disco dei Klimt 1918, gruppo che non ha mai sbagliato nulla nonostante le loro tante evoluzioni, è uno di quelli che ho periodicamente ripescato in questi vent’anni.

Ciononostante, per questo anniversario, ho cercato di pormi quasi con un approccio scientifico verso Dopoguerra, come se lo stessi ascoltando oggi per la prima volta in un assolato pomeriggio di aprile. E il risultato non è minimamente mutato e, anzi, anche a livello storico mi sembra un album estremamente rilevante. Il perché è presto detto: è uno dei dischi che più rappresenta ciò che è stato un certo suono nella prima parte dei Duemila. Sia per quanto attiene alla scena di estrazione “metal” che, sulla scia di fine ’90, cerca di ampliare le proprie influenze, sia in ambito indie, in cui si riscoprono sonorità del passato ancorandole ad una proposta più attuale. Il tutto filtrato attraverso un’ottica personale e orgogliosamente italiana, che affonda le sue radici in sonorità probabilmente neanche cercate (e ci ritornerò), ma che contribuiscono a rendere unico questo meraviglioso e organico miscuglio anche sotto un profilo lirico/concettuale, in cui si alternano visioni “romantiche” di Roma e della sua storia, partendo proprio dal 25 aprile 1945, con testi più intimisti.

Ed è proprio sullo sfumare delle commoventi parole dello storico comunicato del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia che si apre, con tutta la sua irruenza, l’iniziale They Were Wed By The Sea, uno dei brani più intensi ed emozionanti degli ultimi vent’anni che riesce ad unire, con inusitata maestria, gli U2 anni ’80 agli Anathema di quel periodo e che lascia il passo al “singolo” dell’epoca, la notevole Snow of ’85, uno splendido ritratto emozionale della famosa nevicata che imbiancò la Capitale nel 1985.

Un disco di suggestioni, a volte appena accennate, altre esplicitate, come il richiamo agli Interpol di Antics, nella successiva Rachel che viene magnificamente “appesantito” da riff distorti e perfettamente inseriti nel contesto del brano e che lascia il passo a Nightdriver, uno dei pezzi più romantici dell’album che si chiude con una splendida “fuga nell’alba” (All the world has closed his eyes, since I drive / Cast off the colours / Far away in a place where I fade, where I hide), tra distorsioni post-rock ed echi del passato.

Se fino a questo momento l’album è solidissimo e perfettamente inquadrato nelle nuove coordinate sonore seguite dal gruppo, la seconda parte è quella più sorprendente e in cui i fratelli Soellner riescono a fondere tutte le loro influenze alla perfezione: dal post rock di scuola Constellation, presente in ogni brano, alla wave (Because of You, Tonight), a qualche sparuto riferimento al passato di Undressed Momento (Lomo). Il tutto con un equilibrio che lascia, ancora oggi, sconcertati, e che facendo una doppia citazione carpiata, “descrivere è impossibile/bisogna immaginare”.

Perché da Dopoguerra in poi, praticamente tutte le canzoni confluiscono nella successiva, tessendo una trama malinconica/onirica (sia a livello sonoro, che lirico) indimenticabile: e da “Roma rises from the pink / It’s a slice of light that brings me hope” si passa all’inizio meravigliosamente pop di La Tregua, con cui si affrontano i fantasmi del passato, e che con il suo finale tiratissimo ci porta alla ritmata Lomo, per arrivare a Sleepwalk in Rome, brano migliore dell’album e suo picco emotivo. Una canzone in cui si chiudono tutte le “strade” intraprese fino a quel momento, che confluiscono in un momento quasi cantautorale (à-la De Gregori, per essere precisi), il cui effetto “straniante” è tanto – forse – involontario, quanto riuscito ed intensissimo e non per niente è l’unico momento che viene lasciato in italiano, conducendoci progressivamente alle ultime note del disco.

Un finale che, da sempre, mi lascia la stessa sensazione dell’interruzione di un lungo sogno, quella sensazione piacevole di stordimento che, anche se per pochi secondi, ti separa dalla cognizione della realtà circostante. Una sensazione che mi capita, ormai, di sentire da vent’anni, senza cali di intensità. Perché saremo anche invecchiati, ma poteva andare decisamente peggio. (L’Azzeccagarbugli)

2 commenti

  • Avatar di nxero

    Un disco bellissimo, senza se e senza ma.

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  • Avatar di Carolina84

    Non ebbi nemmeno bisogno di ascoltarmi qualche anteprima, un titolo e una copertina così erano un invito al quale non si poteva resistere. Nonostante le tante melodie, meravigliose, un disco non per tutti perché se in te non c’è un animo malinconico fosse anche a 20 anni non lo puoi capire in fondo. Emozioni senza fine.

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