CULT OF FIRE // THE GREAT OLD ONES // CARONTE @Largo Venue, Roma – 07.04.2025
Tre gruppi relativamente giovani, divisi dai generi esplorati ma accomunati dal tentativo di ridefinirne le regole. Lietissimo per la presenza dei CARONTE, che non aprono solo le date italiane ma fanno parte del cartellone per tutta la tournée in giro per l’Europa. Se il doom dei parmensi risulta tutt’altro che fuori contesto non è solo per i riferimenti occulti di cui è imbevuto ma anche per un suono che, distantissimo dal canone narcosatanista da tempo prevalente, abbraccia suggestioni che arrivano fino ai Bathory, un riferimento evidente soprattutto nei brani più datati come Black Gold, estratta dal debutto del 2012 Ascension. Due membri, il cantante Dorian Bones e il chitarrista Asher, arrivano, del resto, dai nostri amati Whiskey Ritual. Doom epico, quindi, ma non epic doom tout-court. “Doom per chi non si droga”, scherza Charles. Dal vivo le chitarre hanno però un suono più classico e corposo, che libera echi Nwobhm.

Ottima la prova di Dorian, che stira, estende e contorce i vocalizzi con grande effetto drammatico. Tra gli estratti del nuovo Spiritus, pubblicato proprio il giorno successivo a questa data, spicca l’avvolgente Sagittarius Supernovae, dove chi ha un certo tipo di, uhm, deformazione professionale finirà per avvertire rimandi al cosiddetto dark sound italiano che probabilmente sono solo nella sua testa. Ma del resto è così che funzionano le evocazioni demoniache.
Ero molto curioso di ascoltare i THE GREAT OLD ONES, magnificati dal folle cultista Stefano Mazza in sede di recensione e intervista. Vengono montati sul palco il sigillo del Necronomicon e un simulacro di Cthulhu e mi sento subito a casa. Voi ribatterete che basta tirare in ballo Lovecraft per farci contenti e in parte avrete pure ragione ma fidatevi, era un pezzo che un gruppo non mi sorprendeva così tanto dal vivo. La materia sonora stratificata e cangiante di un album come Kadath non è affatto semplice da riprodurre sul palcoscenico. Nel peggiore dei casi viene un guazzabuglio, in uno scenario medio qualcosa di sovrabbondante e non sempre digeribile. E lo scenario migliore? È quello a cui abbiamo assistito.

I francesi si presentano avvolti tutti nello stesso felpone, come si conviene a una congrega di officianti dell’innominabile, e spalancano subito portali dimensionali dai quali irrompono divinità dimenticate e malvagie. Lo tsunami di note da cui si viene investiti lascia a tratti paralizzati perché incredibile è il coordinamento tra musicisti che devono passare davvero tantissimo tempo in sala prove. Le tre chitarre si scambiano i riff, li raddoppiano, li contrappuntano, disegnano frattali. La componente progressive non è l’ingrediente in più che consente di allargare lo spettro ma è la cornice entro la quale riescono a convivere il black e il death, gli accenni al metal classico e i richiami al thrash tecnico più irregolare. Non ci sono sfoggi di virtuosismo gratuiti ma il tasso tecnico che emerge è impressionante. Lascia in particolare senza fiato il lavoro dietro le pelli di Julian Deana, in grado di gestire variazioni ritmiche non invadenti ma sensibili portandosi dietro i compagni con un effetto straniante di grande suggestione. Non è solo questione di talento, per giocare in questo modo con le dinamiche serve un lavoro enorme. Concerto straordinario. Tekeli-li! Tekeli-li!
Sono costretto a lasciare il Largo Venue quando l’esibizione dei CULT OF FIRE è ancora a metà a causa di una tragica sveglia lavorativa antelucana che mi attende poche ore dopo. Le righe che seguono sono quindi solo in parte farina del mio sacco e includono le valutazioni di Charles, rimasto invece fino alla fine. Il report non esce a doppia firma perché, per restare in tema di esoterismo, Metal Skunk è un’eggregora.

Durante il cambio palco un tendaggio nero divide in due la sala per non lasciarci sbirciare l’allestimento. La cortina si apre. Ai lati due enormi cobra sotto i quali si piazzano i chitarristi, velati e mascherati. Al posto del bassista c’è una traccia registrata e un po’ lo soffriamo. Il cantante Vojtech indossa un costume da, credo, raksasa, i demoni delle tradizioni induiste e buddhiste che ispirano l’opera del quartetto di Praga, città magica per eccellenza, dove possono allignare anche entità da universi religiosi in apparenza distanti. Il microfono è inserito nell’enorme maschera e gli lascia le mani libere per il cerimoniale, che include gestualità fraintendibili, per noi cinici occidentali, come allusioni ginecologiche. Forse c’entra il tantra, non so, devo decisamente riprendere Guénon.
Il nuovo album The One, Who Is Made of Smoke mi è piaciuto meno dei precedenti. La formula si è semplificata, è diventata più accessibile ma meno originale. Dhoom, piazzata in apertura, non è così distante, come approccio, dagli ultimi Rotting Christ. Molto meglio una Zrození výjimečného, prima canzone di Moksha, eseguita subito dopo: i suoni del metallo nero nordico al servizio di torridi cerimoniali dal subcontinente. Sulla carta incongruo, eppure funziona. La scrittura più lineare di Joy e Anger dal vivo si concilia forse meglio con il lato ritualistico dello spettacolo, che il suo effetto lo ottiene, dato il silenzio che accompagna le pause tra un brano e l’altro, quasi come se un applauso troppo prolungato rischi di scatenare reazioni inconsulte del raksasa. Sorge spontaneo il paragone con i Batushka. Nel loro caso la sovrastruttura estetica è funzionale a entrare nella loro dimensione, un ingresso facile se si ha il cristianesimo nel proprio retroterra culturale. Con i cechi, nonostante i pezzi siano molto belli, ci sentiamo invece osservatori esterni. È probabilmente l’alterità geografica dei riferimenti a tenerci a distanza. E non escludiamo che sia proprio questo l’effetto che si intende ottenere, almeno nei confronti di parte del pubblico.
Chissà se era buona la salsa al curry dei Cult of Fire venduta al banchetto. (Ciccio Russo)
