ELDAMAR – Astral Journeys part II
Due dischi, poi sette anni di silenzio e l’anno scorso improvvisamente Astral Journeys part I. Ora arriva la parte II, e ripartiamo da dove ci eravamo fermati, cioè dalla necessità di Mathias Hemmingby, unico responsabile del progetto Eldamar, di variare il repertorio rispetto al canone dei primi due album, che non permetteva di immaginarsi chissà quali vie di fuga. La sorpresa è che questa seconda parte sposta ancora più in là i paletti stilistici rispetto alla prima, e la riprova era già arrivata con il primo estratto, Because this Feels so Good, che mi era stato passato da un Michele Romani scandalizzato e disgustato dalla piega presa dal progetto norvegese. Il pezzo in questione è infatti parecchio influenzato dagli Alcest, anche se in maniera piuttosto semplicistica, con una voce femminile (vera, cioè non sintetica come nei primi album) che intesse malinconiche melodie mentre la parte strumentale varia tra arpeggi, arrangiamenti di archi e un’andatura via via più intensa, come in uno di quei climax tipici del blackgaze o del post-qualcosa. Tutti elementi finora estranei agli Eldamar, che avevano sempre fatto del minimalismo la propria cifra; ma in qualche modo lo stile di Hemmingby si riconosce, e non rende il pezzo una semplice scopiazzatura del gruppo di Neige. Per la cronaca, a me il pezzo è piaciuto sin da subito.
L’album completo si compone di altri due pezzi effettivi, escludendo quindi intro, outro e intermezzo centrale, che sono abbastanza diversi tra loro. Il primo dura quasi dieci minuti ed è una specie di evoluzione del vecchio suono Eldamar, ma espunto della maggior parte dei riferimenti ai Lustre e della voce sintetica, con una varietà di soluzioni e di arrangiamenti che lo spingono sempre in senso post-black; è carino, diciamo, anche se ci vogliono diversi ascolti per abituarsi a questa nuova direzione. L’altro pezzo è di un quarto d’ora abbondante ed è abbastanza strano: la prima parte si riavvicina al vecchio stile del gruppo (e quindi dei Lustre), con quel caratteristico andamento cadenzato, dopodiché entrano i fiati e le trombe e si trasforma in una tonitruante fanfara pepperepè sinceramente fastidiosa alle orecchie. Mi è parso che Hemmingby volesse chiudere in maniera trionfale il doppio concept e che quindi abbia spinto un po’ troppo sull’enfasi, ma il risultato è davvero di cattivo gusto.
Quindi abbiamo tre pezzi il cui migliore è il primo, che è anche il più breve dato che dura cinque minuti, e poi venticinque minuti di musica dagli esiti alterni, escludendo anche un lungo intermezzo strumentale che sembra scritto dai Rhapsody dei bei tempi. Il giudizio è comunque positivo, perché tirando le somme l’unica cosa inascoltabile è il finale in stile Wagner dei terremotati, e di contro tutto il resto è quantomeno gradevole. Hemmingby sta chiaramente cercando la sua strada andando per tentativi, e infatti questo disco sembra composto di abbozzi e spunti. Staremo a vedere se il futuro ci darà una versione degli Eldamar ancora più spinta verso il post-black o se il loro stile si evolverà in direzioni ancora diverse; nel frattempo poteva andarci comunque molto peggio di così. (barg)


