Sentirsi a casa coi MOGWAI – The Bad Fire
Ho sempre pensato che ci sono alcune cose che ci fanno stare bene, che ci mettono in una situazione di assoluta “pace con l’universo”, indipendentemente dal loro contenuto. Personalmente mi capita, ad esempio, con il cinema di Woody Allen, anche con i film drammatici, financo con quelli bergmaniani: mi basta vedere i titoli di testa con il font windsor bianco su sfondo nero per provare una sensazione di immediato “benessere”. Oppure con i dischi di Springsteen, degli Wilco, dei Judas Priest o dei Savatage: non serve che sia qualcosa di “allegro” o di conciliante: è una questione epidermica, chimica, alchemica. Mi basta percepire una certa atmosfera per star bene. A dimostrazione di ciò, una delle band con cui ritrovo questo stato di riconciliazione col mondo sono proprio i Mogwai, un gruppo non propriamente allegro, come scrissi per il ventennale di Happy Songs for Happy People, uno dei dischi più tristi che siano mai stati composti, ma che ogni volta è capace di darmi sensazioni positive.
E contestualmente parliamo di un gruppo che, come scrissero i miei sodali molti anni or sono, è incapace di scrivere dischi poco ispirati, sia quando si tratta di album veri e propri, sia quando si cimentano in colonne sonore e progetti paralleli. Tutto ciò, ormai da qualche anno, senza cambiare di un nonnulla la propria proposta, pubblicando opere formalmente simili ma sempre diverse, soprattutto per le sensazioni che generano nell’ascoltatore.
Il nuovo The Bad Fire (espressione usata a Glasgow per indicare l’inferno) è perfettamente esemplificativo di quanto fino ad ora osservato. Per molti aspetti è una coerente prosecuzione dell’ottimo As the Love Continues che aveva portato i Nostri addirittura al primo posto nel Regno Unito ed è un album al tempo stesso estremamente musicale e forse quello che contiene più elementi pop nell’intera carriera dei Mogwai, ed estremamente cupo. Ma, per le ragioni sopraesposte, anche un lavoro che genera benessere. E del resto così è stato anche per la band, che si trovava in un momento molto difficile, in un vero e proprio inferno per la malattia che aveva colpito la figlia di Barry Burns (fortunatamente allo stato risolta grazie a un trapianto di midollo) e che ha portato a riversare nell’album molte delle loro ansie e frustrazioni, riuscendo, però, nel processo creativo, ad esorcizzare tutto ciò e a rivedere la luce.
Ed è una luce che filtra, soprattutto nelle composizioni più ariose, come il fantastico singolo Fanzines Made of Flesh, o nella trascinante Lion Rumpus che rappresentano una faccia, quella più istintiva, di The Bad Fire. Allo stesso tempo, però, abbiamo brani come If You Find This World Bad, You Should See The Others, con i suoi “saliscendi” sonori ed emozionali di una classicità post-rock che non stanca mai, o gli echi dei Cure di una Pale Vegan Hip Pain.
Un lavoro, come si diceva, estremamente coerente con l’ultima produzione degli scozzesi, e in generale con il loro modo di concepire la musica (contrasti, stasi, dissonanze, titoli ironici), ma in cui, come sempre, si trovano elementi di “novità”, magari appena accennati in mezzo ai “soliti” synth e alle chitarre distorte. E così è impossibile non cogliere elementi shoegaze, momenti à-la My Bloody Valentine, accenni wave, anche in considerazione del fatto che forse, a conti fatti, questo è il disco in cui ci sono più parti “cantate” nella carriera dei Mogwai. E in particolare, c’è un brano estremamente sofferto, 18 Volcanos, in cui si rinuncia persino a filtri vocali e vocoder, virando su sonorità da indie anni ’90, perfettamente inserite nel sound dei nostri.
Un album sorprendente nella sua classicità e nel riuscire a suonare, anche dopo trent’anni e pur non essendo più il frutto di una giovane squadra, ancora fresco e, soprattutto, necessario e sentito. Ed un disco in grado, ancora una volta, di riconciliarmi con l’universo, nonostante la palpabile sofferenza che lo connota. (L’Azzeccagarbugli)
Il nuovo The Bad Fire (espressione usata a Glasgow per indicare l’inferno) è perfettamente esemplificativo di quanto fino ad ora osservato. Per molti aspetti è una coerente prosecuzione dell’ottimo As the Love Continues che aveva portato i Nostri addirittura al primo posto nel Regno Unito ed è un album al tempo stesso estremamente musicale e forse quello che contiene più elementi pop nell’intera carriera dei Mogwai, ed estremamente cupo. Ma, per le ragioni sopraesposte, anche un lavoro che genera benessere. E del resto così è stato anche per la band, che si trovava in un momento molto difficile, in un vero e proprio inferno per la malattia che aveva colpito la figlia di Barry Burns (fortunatamente allo stato risolta grazie a un trapianto di midollo) e che ha portato a riversare nell’album molte delle loro ansie e frustrazioni, riuscendo, però, nel processo creativo, ad esorcizzare tutto ciò e a rivedere la luce.
Ed è una luce che filtra, soprattutto nelle composizioni più ariose, come il fantastico singolo Fanzines Made of Flesh, o nella trascinante Lion Rumpus che rappresentano una faccia, quella più istintiva, di The Bad Fire. Allo stesso tempo, però, abbiamo brani come If You Find This World Bad, You Should See The Others, con i suoi “saliscendi” sonori ed emozionali di una classicità post-rock che non stanca mai, o gli echi dei Cure di una Pale Vegan Hip Pain.
Un lavoro, come si diceva, estremamente coerente con l’ultima produzione degli scozzesi, e in generale con il loro modo di concepire la musica (contrasti, stasi, dissonanze, titoli ironici), ma in cui, come sempre, si trovano elementi di “novità”, magari appena accennati in mezzo ai “soliti” synth e alle chitarre distorte. E così è impossibile non cogliere elementi shoegaze, momenti à-la My Bloody Valentine, accenni wave, anche in considerazione del fatto che forse, a conti fatti, questo è il disco in cui ci sono più parti “cantate” nella carriera dei Mogwai. E in particolare, c’è un brano estremamente sofferto, 18 Volcanos, in cui si rinuncia persino a filtri vocali e vocoder, virando su sonorità da indie anni ’90, perfettamente inserite nel sound dei nostri.
Un album sorprendente nella sua classicità e nel riuscire a suonare, anche dopo trent’anni e pur non essendo più il frutto di una giovane squadra, ancora fresco e, soprattutto, necessario e sentito. Ed un disco in grado, ancora una volta, di riconciliarmi con l’universo, nonostante la palpabile sofferenza che lo connota. (L’Azzeccagarbugli)

Fuoriclasse cristallini. Non serve aggiungere altro.
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Questo sentimento verso musica o film che ci mettono in pace l’ho codificato quando sono arrivato agli “anta”: è proprio una specie di respiro che hanno determinate opere, che siano i tempi dilatati di Antonioni come una musica anche rock ma che non suona forzata, anzi, fa trasparire la capacità dei musicisti di governare bene la trama, la melodia, il ritmo. Il languore di un blues, uno shuffle tenuto bene, la batteria “indietro” di Phil Rudd come ad esempio in Night Prowler, ecc. ecc. ecc…
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