Recuperone black metal 2024 – terza parte

Proseguo con le segnalazioni brevi di dischi cui sarebbe stato opportuno dedicare miglior cura e attenzione che non meritano in alcun modo di essere dimenticati.

L’inglese Death Prayer records pubblica in settembre l’eccellente debutto degli indonesiani SOLSTICE PYRE, già autori l’anno scorso di un interessante EP (The Sighting of Ethereal Dimension) che li ha portati all’attenzione in quanto provvisti di cospicuo talento. Fireborn consta di sette brani, circa 41 minuti di musica. Propone un notevole black atmosferico con forti connotati dungeon synth, ciò dovuto alle sonorità scelte per i sintetizzatori sui quali le composizioni in definitiva si reggono. La linea melodica la detta la tastiera, chitarra e voce ne seguono le orme, la batteria molto probabilmente è elettronica pur avendo suoni meno artificiali di quanto succeda solitamente.

La voce è in screaming aggressivo abbastanza acuto, mixata un po’ bassa e molto riverberata, quasi si fosse pensato in sede di produzione di mitigarne almeno un po’ la crudezza. Se prendiamo ad esempio l’apertura Alcarinqua ci accorgiamo che i Nostri non disdegnano di proporre melodie accattivanti, di derivazione folk/pagan, trame che avrebbero potuto inventarsi i Windir se avessero impostato le composizioni sulle tastiere. Minelauva, ad esempio, ha un riff di accompagnamento che ricorda i Cradle of Filth di Dusk and her Embrace ma come detto è anch’esso subordinato alla melodia che viene indicata dal synth. Non si hanno notizie su chi o quanti siano i componenti della band, ma tutti gli strumenti (basso compreso) hanno il loro preciso compito ed uno spazio adeguato. Grintoso, tendenzialmente veloce, coinvolgente Fireborn può piacere anche a chi trova già Stormblast dei Dimmu Borgir troppo estremo. Ecco, Stormblast è un discreto termine di paragone per l’esordio dei nostri lontani amici blackster asiatici.

È sempre di settembre il quarto full dei semisconosciuti blackster norvegesi NOEN HATER OSS, uscito per Dusktone. Puro black metal vecchio stile che talvolta ricorda in modo impressionante i Kvist, Kunsten aa Gjoere Jorden Ubeboelig è meritevole di attenzione. Registrato quasi in lo-fi, prediligendo suoni fortemente retrò, composto secondo schemi che rifuggono dalla brutalità tipica del classico fast black norvegese, la proposta musicale di Raum – colui che si occupa di tutto il progetto – oggi si addentra anche in territori stravaganti, acidi, quasi psichedelici, mentre cori simili al gregoriano in sottofondo accostano vagamente lo stile a certo religious black meno esasperato.

Ne sia esempio Oderint Dum Metuant, il pezzo che segue una trascurabile intro: è molto probabile che se vi piace gradirete poi l’album per intero, perché la falsariga che si segue è questa, sebbene ovviamente l’artista si prodighi nel cercare soluzioni alternative per fuggire dalla banalità o dall’eccessiva ripetitività. Allora magari si accelera a tratti (ad esempio De Brysomme Guder, nel quale possiamo gustarci anche un gradevole assolo di chitarra) oppure ci si inventa arpeggioni melodici e d’atmosfera a-la Burzum, o ancora si propongono soluzioni black metal minimale di chiara discendenza primi anni ’90… Un disco ben fatto, non lunghissimo – 38 minuti – vario e trascinante, incontrollabilmente malevolo e infernale, ben scritto e ben arrangiato senza eccessi stilosi, cantato pure in modo molto “scenografico” grazie a un’impostazione a metà tra il growl, lo screaming basso e vaghi accenni occult/thrash propri del secolo scorso. Probabilmente il loro disco migliore di sempre. Vale almeno un ascolto, fidatevi.

Settembre è stato un mese assai intenso. È uscito per Antiq anche il debutto eponimo dei francesi TOUR D’IVOIRE, quattro brani (che in digitale diventano cinque) di black sinfonico considerevolmente più veloce dei gruppi sopradescritti. Si tratta di un progetto parallelo di Hyvermor (Véhémence, Grylle tra gli altri) coadiuvato alle voci clean e scream da una fanciulla (giuro non si direbbe se ci si basa solo sullo screaming), pure lei nei Grylle, e da un bassista che come usuale al giorno d’oggi ha in piedi almeno una decina di altri progetti, solisti e non.

La formula dei Tour d’Ivoire, se mi consentite, è anche abbastanza originale, perché trasla il formato della classica composizione depressive black, monotona, ripetitiva talvolta fino allo sfinimento, angosciante e nera come la più pura ossidiana, applicandola al black atmosferico che non evita affatto il blast beat. Ne consegue che non siamo travolti da un’alluvione di riff mutevoli in continuazione; ne bastano pochi alternati con sapienza, arrangiati secondo alcune varianti che ne evitano di proposito una stucchevole tediosità. Niente funambolismi o sbrodolate di note magniloquenti di chitarra o tastieroni, la proposta è sostanzialmente semplice e diretta. In prevalenza le composizioni sono comunque impostate su tempi medio/lenti ma il contesto tradizionale DSBM è piuttosto distante da quanto possiamo ascoltare in questo album. Che è melodico, lineare, dall’umore molto notturno, lunare come artwork lascia intendere. La Tour e Brouillard sono dei gran pezzi, gli altri due non sono da meno e poi siamo nuovamente intorno ai 38 minuti, nulla di eccessivo o troppo impegnativo da ascoltare.

Infine una piccola incursione in un genere che quest’anno ho un po’ trascurato, perché alla fine della fiera non è che siano usciti molti dischi che mi abbiano solleticato particolarmente. A parte i finlandesi Shades of Deep Water (sui quali ho in programma uno speciale) gli unici dei quali trovo appropriato parlare sono i greci FÖHN, i quali hanno esordito sulla lunga distanza con un album intitolato Condescending, melmoso, drammatico e privo di ogni speranza. Avrete capito che si parla di funeral doom, quindi non penso sia il caso di dilungarsi troppo nella descrizione di ciò che suonano i Nostri.

I pezzi sono tutti lunghissimi, apportatori di angoscia e agonia esistenziale, per reggere fino in fondo ci vuole allenamento anche perché Persona, che chiude l’album, è il più lungo (17 minuti e mezzo), il più dissonante e corrosivo. Tuttavia va rimarcata la presenza di sax tenore e soprano sia in quest’ultimo brano che nell’apertura Bereft, in grado di portare originali influenze acid jazz e rock fusion a trame compositive che si dipanano canonicamente su tempi lentissimi, asfissianti, irrespirabili. Ci sono comunque tetre e grevi melodie effuse dalle composizioni, in grado di elevare a potenza la drammaticità insita in esse. L’ascolto è difficile, maneggiate con cautela.

E per il momento è tutto, enjoy. (Griffar)

 

3 commenti

Lascia un commento