FIRENZE METAL @Viper Theatre – 16.11.2024

Due chiacchiere e una birra sono l’inizio ideale di ciascun Firenze Metal, fra lettori, organizzatori e colleghi scribacchini che incontro. Nei giorni che hanno preceduto la data del 16 novembre ho affrontato un’autentica morìa, con vari individui che mi ravvisavano che non sarebbero potuti venire per – ne riporto le testuali e laconiche parole – motivi familiari, mi sono appena fidanzato e poi c’è il rally di Scandicci, e, infine, lavoro troppo e ho il ciclo mestruale. Il tutto andava assumendo i connotati di un libretto delle giustificazioni delle scuole superiori, fra la mia incredulità e la certezza che se fossi entrato nel giardino di Boboli li avrei ritrovati tutti imboscati lì a farsi le canne.

Il bill non era quello entusiasmante dell’edizione con i Mortuary Drape e gli Slug Gore o, meglio ancora, di quella con Cripple Bastards e Fulci, ma ero certo che i Fleshgod Apocalypse avrebbero portato al Viper Theatre un sacco di gente. Più che altro Francesco Paoli e soci incarnano al meglio desideri e volontà d’un pubblico notoriamente giovane come quello che solitamente ritroviamo al Firenze Metal. Ero curioso anche per i Graveworm, residuato bellico del mio periodo adolescenziale di completa infatuazione per il metallo estremo di qualunque estrazione sociale, provenienza, forma o colore.

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Apocalyptic Salvation (foto di Marco Belardi)

Gli emiliani APOCALYPTIC SALVATION hanno aperto le danze in sordina. Francamente li conoscevo per la sola copertina dipinta da Paolo Girardi: ho inquadrato il loro stile come un crocevia fra death metal – al novanta percento – e qualche ricamino thrash, il che mi ha fatto pensare a certe cose dei Malevolent Creation. All’affermazione di una fotografa “in questo punto esatto si sente odore forte di minestrone” ho pensato per un attimo di raggiungere gli altri a Boboli. Ma effettivamente aveva ragione lei.

In luglio gli INNER CODE comunicavano la loro separazione da Francesco Benedetti e Jago Balistreri, quest’ultimo avente il ruolo di cantante. La rinnovata formazione si è esibita con Giulio Soffici alla sei corde, già presentato negli scorsi mesi, e un tipo incappucciato portato sul palco – con svariati fucili d’assalto puntati alla testa – in qualità di nuovo frontman. Jago ben gestiva il dualismo fra voce pulita e il suo eccellente growl. Il suo sostituto, leggermente penalizzato dal mixaggio, ha presentato uno stile meno definito in cui spiccava uno stile un po’ più urlato. Un po’ più metalcore, per intenderci. Buone le movenze sul palco, minore il contatto con il pubblico: in linea di massima gli preferisco su tutta la linea il predecessore, mentre lo show della formazione è rimasto tutto sommato di discreta fattura.

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Inner Code (foto di Marco Belardi)

I SUBHUMAN penso di averli visti dal vivo per la dodicesima o tredicesima volta. In vita mia credo di avere passato tanto tempo davanti ai Subhuman quanto davanti alla televisione a guardare Superquark o La ruota della fortuna. Fanno sempre un ottimo concerto, in cui sostanzialmente spostano una o due virgole, o neppure quelle: la differenza la fa semmai il contesto. Le ultime volte, rispettivamente allo Stony Pub e alla Crossover Ballroom, non mi colpirono appieno proprio perché era la location a non essere ottimale. Naturale che al Viper Theatre il vento abbia soffiato in loro favore, con Nata Troia in chiusura di scaletta poco dopo il lancio dell’immancabile Orca. A quel punto mi sono spostato per l’unica volta dalla transenna per capire se i suoni rispondessero bene a fronte del mixer, e la risposta è stata più che positiva.

Penso per un attimo che queste due band si erano già presentate sul palco del Firenze Metal, e che il loro ripresentarsi ha in un certo senso tolto autenticità alla data. Intanto la gente continua ad affluire, portando i numeri dalle parti delle cinquecento presenze. Un po’ lontano dai settecento circa che ho visto in occasione del concerto di Yngwie Malmsteen, più o meno in linea con i presenti ai Mudhoney di qualche mese fa. 

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Subhuman (foto di Marco Belardi)

Il concerto della serata, per chi scrive, è stato assolutamente quello dei GRAVEWORM. Gli italo/austriaci sinceramente li seguo col contagocce. Mi ero ritrovato incuriosito dalla loro musica all’epoca di As the Angels Reach the Beauty e Scourge of Malice, dunque una vita fa: da quei due album hanno estratto A Dreaming Beauty e Demonic Dreams, a proposito. Adesso hanno una formazione ampiamente rinnovata, e il loro Killing Innocence del 2023 ho scoperto esistesse durante il tragitto d’andata. Perché allora i Graveworm escono come i vincitori da questo Firenze Metal? Perché è stato come guardare un concerto d’altri tempi: niente gingilli, niente siparietti. Metallo puro e basta, cinque metallari d’età stimata fra i quaranta e i cinquanta che hanno fatto headbanging per un’ora scarsa, senza sosta, e che grazie alla voce di Stefan Fiori – polpacci larghi quanto tronchi d’abete, tono da pubblicità della Ricola – si sono rapportati con il pubblico con rispetto e profonda riconoscenza, senza mai fare i paraculo. Il concerto dei Graveworm è stato suonato prima ancora che con gli strumenti con il cuore, e francamente, alla vigilia, non mi sarei aspettato una risposta così calorosa dal pubblico fiorentino.

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Graveworm (foto di Marco Belardi)

Il passaggio dei FLESHGOD APOCALYPSE su un palco che normalmente presenta sempre la medesima scenografia, che si tratti di Mudhoney o di Cripple Bastards, ha rivoluzionato tutto quanto. Sono comparsi candelabri, scale contornate da teschi e oggetti il cui tono invocava il termine ottocentesco. Una sorta di svuotacantine a casa della bisnonna finito in caciara, diremmo frettolosamente. In realtà no: i loro strumenti custom, il vestiario e la suddetta scenografia la dicono lunga su quanto investa Nuclear Blast su di loro. La dicono lunga sul fatto che i Fleshgod Apocalypse sono divenuti nel tempo un gruppo grosso, e che la loro italianità debba essere obbligatoriamente motivo di orgoglio da parte di ciascun metallaro.

Sono cresciuto a pane e Mental Funeral degli Autopsy e quindi il death metal dei Fleshgod Apocalypse, così ridondante, virtuoso e troppo spesso cacofonico, non può in alcuna maniera essere il mio. Ma non posso essere in alcun modo negativo a riguardo della loro esplosione e affermazione, sarei disonesto.

Ampio spazio all’ultimo album Opera con la riproposizione di tutte e quattro le tracce d’apertura, più, se non erro, Morphine Waltz. Anche perché c’è Veronica Bordacchini e concentrarsi su titoli come Oracles o Mafia – per la gioia mia – avrebbe significato tenerla lì a reggere il moccolo. La sua prestazione è stata ottima, e Francesco Paoli sembra aver messo alle spalle l’incidente alpinistico che ha ispirato le liriche di Opera.

Ho visto un po’ troppi siparietti, tra wall of death, circle pit e tutte quelle robe che piacciono al pubblico attuale. Rifletto per un attimo su quest’ultimo: è un pubblico che pretende di sentirsi partecipe e di divertirsi, non più un pubblico semplicemente “osservatore adulante” dei beniamini che dal palco lo sovrastano. Sono certo che i social network siano il motore assoluto di questa trasformazione attitudinale di massa.

Unico intoppo uno dei pedali delle due grancasse di Eugene Ryabchenko, mandato a puttane a suon di swivel e martellate varie praticamente a inizio set. Subito dopo I Can Never Die, se ben ricordo.

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Fleshgod Apocalypse (foto di Marco Belardi)

Francesco Paoli presenta Eugene – suo erede dietro alle pelli – come ottimo ballerino, e infine gli concede un assolino al pianoforte per mezzo del quale introduce la cover degli Eiffel 65, Blue, tormentone e tormento dei metallari negli anni Novanta. L’hanno fatta davvero, e io avrei voluto essere sul tetto con gli storni migratori che mi mangiavano entrambi i bulbi oculari. Se a un certo punto si fosse rotto un tubo dell’acqua, Eugene Ryabchenko sarebbe stato introdotto come ottimo idraulico e l’avrebbe riparato mentre il pubblico vogava o impiattava il minestrone annusato in apertura di bill.

Il principale pregio dei Fleshgod Apocalypse è che portano sul palco del materiale estremamente complesso e stratificato senza sbagliare una nota, senza mai rallentare, senza che si perda per strada un solo pezzo. Sono delle macchine oliate alla perfezione, e se in futuro decidessero di puntare anche solo per un dieci percento in più sul riff, guadagnerebbero in tal sede ulteriori punti.

Il concerto scorre liscio come l’olio: cinque band anziché sei, e scalette mai eccessivamente lunghe, e per mezzanotte e mezzo ho rimesso testa e piedi fuori dal Viper Theatre, a godermi l’umido della piana fiorentina. Bella serata, non il miglior Firenze Metal ma una bella serata. (Marco Belardi)

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