Vichinghi che si lavano tutti i giorni: GRAND MAGUS – Sunraven
È da Hammer of the North, classe 2010, quando tagliarono i ponti con il passato doom, che i Grand Magus incidono più o meno sempre lo stesso disco. E le mie sensazioni sono, ogni volta, ambivalenti. Per noialtri che giriamo con il santino di Mark Shelton nel portafogli non dovrebbe esserci nulla di peggio della lettura patinata, esageratamente apollinea che gli svedesi offrono di un genere che è per sua definizione dionisiaco, sanguigno, sporco, elitario, persino un po’ ammantato di sfiga. Poi esce il nuovo album e per settimane lo tengo in rotazione, senza peraltro che mi venga mai qualcosa di acuto da scrivere in materia. Sono giorni e giorni che continuo a riascoltare Sunraven, ripetendomi che non è nulla di che, sentendomi addirittura un po’ in colpa per spenderci tutto questo tempo ma non riuscendo tuttavia a mollarlo. Oggi potrei essere giunto all’attesa illuminazione: e se non fossero i Grand Magus a fraintendere l’epic metal ma fossimo noi a fraintendere i Grand Magus?
Sono abbastanza d’accordo con quanto scrisse Centini a proposito del ventennale dell’esordio omonimo. Quei Grand Magus imbevuti di stoner erano molto più interessanti, vitali, personali, gagliardi. Ho però l’impressione che quella componente settantiana, sia pure in altre forme, sia, col tempo e la sopravvenuta maturità, rientrata dalla finestra, ammesso che se ne fosse mai andata. I Sabbath nel suono dei Grand Magus non ci sono più da un pezzo ma i Rainbow, per esempio, sì, e non solo perché la voce di JB richiama a volte quella di Ronnie James Dio. Se smettiamo quindi di considerarli epic metal all’acqua di rose e iniziamo a prenderli come un gruppo hard rock con un’estetica e un riffing che guardano, con intensità variabile, all’epic metal, ecco che finalmente si può far pace con loro.

Anche il disco più guerresco dei Grand Magus, un Triumph and Power per esempio, è in fondo privo di legami, se non superficiali e apparenti, con le band americane che negli anni ’80 tradussero in musica le atmosfere sword & sorcery. Quindi è inutile andarvi a cercare quella roba lì, per quanto venga spontaneo. Perché americani non sono, non hanno quel testosterone, quell’urgenza, quella puzza di sudore. Al contrario hanno, come è giusto che sia, i suoni rifiniti, finanche leccati, e le strutture lineari e piacione della tradizione hard rock nazionale, quella di Europe e Axxis per intenderci.
Sunraven arriva a distanza di cinque anni dal discreto Wolf God e aspettarsi qualcosa in più era lecito. Le prime quattro canzoni funzionano bene e confermano una facilità di scrittura, pure svedesissima, che rimane non comune. La centrale The Black Lake è talmente elementare da suscitare ammirazione perché per far marciare quelle due note in croce ci vuole classe. Le ultime quattro scorrono senza lasciare tracce particolari, per quanto la voce di JB riesca a nobilitare anche il giro di chitarra più risaputo. Anche per questo ogni disco dei Grand Magus post-Iron Will, non importa quanto riuscito, finisce sempre per lasciare una nota d’amaro in bocca. Perché un cantante con simili capacità avrebbe potuto ambire a essere parte di qualcosa di più grande. E perché si ha sempre la sensazione di avere di fronte un gruppo che avrebbe tutte le carte in regole per raggiungere traguardi superiori se solo non fosse prigioniero della sua comfort zone. A loro va evidentemente bene così, dato che in questa comfort zone si trova a suo agio un pubblico abbastanza nutrito. Un pubblico che cerca il calduccio, però; per le “tempeste invernali” evocate in un titolo è sempre il caso di rivolgersi altrove. (Ciccio Russo)

uno di quei gruppi destinati a suonare nei festival tedeschi alle tre del pomeriggio, sopravvalutati e seriali, come da tradizione nordica.
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Sic rebus stantibus, li dovrei preferire ora.
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non mi sto facendo troppe seghe mentali e anche questo disco va giù bene, come una birra beverina.
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A me ricordano anche io primi Judas Priest….
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