Avere vent’anni: ISIS – Panopticon

C’è stato un momento in cui si è plasmato un suono che, nei primi Duemila, è stato definito come post-metal e che per qualche tempo è stata la “next big thing”.  Come tutti questi non-generi, si trattava di un calderone in cui venivano messi insieme band che partivano da presupposti e da riferimenti completamente diversi e che erano accumunate da origini post-core, su cui si innestavano derivazioni che spaziavano dal post-rock a mille altri generi che, in alcuni casi, orbitavano intorno al metal. Pur essendo una non-scena, ci sono stati gruppi e album che hanno lasciato il segno, e uno di questi è Panopticon degli Isis (Isis THEBAND, come ormai tengono a precisare anche sulle loro pagine, lo dico per il solerte maresciallo che passa al setaccio il nostro blog). Un disco che, anche a distanza di vent’anni risulta ancora potente e devastante come allora, perché, se c’è un tratto comune che unisce band diversissime tra loro, è quella capacità di annichilire l’ascoltatore. Perché, come scriveva Barg per il ventennale di Oceanic, per mettersi ad ascoltare gli Isis devi essere nello stato d’animo giusto. Se, in questo senso, Oceanic è insuperabile anche a livello tematico (il lungo percorso che porta ad un suicidio per annegamento, dopo che il protagonista ha scoperto un tradimento, pure incestuoso, della sua amata), Panopticon non è comunque da meno.   Musicalmente si assiste ad un ulteriore ammorbidimento del suono che però, paradossalmente, diventa ancora più incisivo, come si percepisce sin dall’iniziale, splendida, So Did We, uno dei brani più aggressivi dell’album, nella quale la violenza dei precedenti lavori risulta più ragionata, ovattata, con effetti che ho sempre trovato stranianti. C’è molto più post-rock, ci sono i Mogwai, come emerge chiaramente nella strumentale Altered Course, ma anche gli Slint, che fanno capolino in diversi momenti dell’album. C’è, come già in passato, una certa influenza dei secondi Neurosis in brani come Backlit, in un suono che è al tempo stesso monolitico – nell’impatto – e in evoluzione, per quanto attiene alle soluzioni proposte. Soluzioni che in ogni caso, come evidenziavo pocanzi, pur virando su sonorità più morbide rispetto al passato, finiscono per creare un tangibile senso di angoscia e oppressione crescente durante l’ascolto, che è diretta emanazione della parte “concettuale” dell’album. E infatti, tanto Oceanic era incentrato su tematiche personali, quanto Panopticon affronta, in modo tutt’altro che banale, concetti filosofici che partono proprio dall’ideale penitenziario di assoluto controllo – che dà il titolo al disco –  tratteggiato attraverso riferimenti a Jeremy Bentham, a Foucault, applicati, in concreto, all’America post 9/11 della war on terror. isis-20181023154551 Un lavoro suggestivo, rarefatto, che anche nei suoi momenti di luce non riesce mai davvero a trovare una sua serenità, così come, in un brano come In Fiction, in cui si sentono anche echi dei Cure, non si riesce nemmeno ad arrivare ad una catarsi di nessun tipo, ma, al massimo, ad una sorta di anestetizzazione (à-la Comfortably Numb). Un grande album che chiude, per quanto mi riguarda, il percorso evolutivo degli Isis, che pubblicheranno altri due album, prima del loro scioglimento, di buona fattura (soprattutto In The Absence of Truth), ma in cui inizierà a farsi strada il mestiere, mancando quell’urgenza che aveva caratterizzato il resto della loro discografia. (L’Azzeccagarbugli)

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