Il commovente omaggio degli STEINRAS all’antico black metal norvegese
Quella che rischia veramente di essere la sorpresa dell’anno è il debutto assoluto dei norvegesi Steinras, progetto di Steinar Aven e Arne Gandrund, entrambi polistrumentisti coinvolti in altre entità tipo Nattverd, giusto per citarne una tra i tanti. Fin dal primo brano En Kald Død si viene catapultati indietro nel tempo di trent’anni abbondanti, grazie al riff di apertura che sembra uscito pari pari da Kronet Til Konge. Sì, perché il disco nel suo complesso è un mirabolante tributo a tutto quanto si sono inventati i norvegesi in quei giorni antichi e fastosi. A fare la lista di tutti quelli che vengono in mente mentre la puntina scorre sui solchi del vinile ci farei notte, perché prima o poi TUTTI i capostipiti del black e del proto-black vengono omaggiati con un passaggio, un riff, uno stacco tipico del loro stile: prevalgono sentori di Dødheimsgard (i primi), ci riconosco molto i Gehenna anche se mancano del tutto le tastiere, i primi Enslaved e i secondi Emperor (quelli più tecnici), ma penso anche ad un brano tipo Crawler of the Crypt, che presenta i tipici riffoni thrash/punkeggianti con tanto di stop’n’go tanto cari agli Aura Noir oppure agli Urgehal.
Sostanzialmente si può affermare con cognizione di causa che l’intero lavoro è una specie di collage di tutte le meraviglie che da ventenni abbiamo adorato, provenienti da una lontana terra settentrionale che, in apparenza, prima di allora in campo metal aveva proposto poco o nulla, e che invece ha cambiato la storia dell’heavy metal e non solo. Per di più è oltremodo vincente l’idea di avere il featuring di un cantante storico diverso per ognuno dei dieci brani del disco: c’è Skagg, c’è Dolgar, c’è Larsen dei Nordjevel… Insomma, la lista intera la trovate sull’Archivio, se vi garba. Oltre a diversificare enormemente la resa sonora, l’idea fa di questo loro disco di debutto una sorta di all-star game, una sorta di tributo ad una scena inimitabile, architettato su composizioni originali e non solamente su cover. Inoltre i due strumentisti/compositori sono macchine da riff, e ne scrivono uno migliore dell’altro. A me sono venuti i brividi più di una volta, e ho nominato più volte il nome di Dio invano ascoltando certi passaggi, certi stacchi o certi riff che sembrano affiorare da un calderone nel quale si cucinano da sempre solo eccellenti successioni di note. È una specie di magia.
I pezzi sono costruiti da manuale: i rallentamenti, i blast, le accelerazioni brucianti, i cambi di tempo repentini, il retro-thrash, il punk, la durata snella senza prolissità alcuna, le melodie frosty che ti entrano in testa e non ne escono più, la totale mancanza di riempitivi visto l’altissimo livello di ogni composizione; è tutto letteralmente al posto giusto al momento giusto e questo è… è un miracolo, ragazzi. Se poi penso a quanto mi ha ricordato i Kvist la conclusiva Satanic Fate! Io spero solo che questo album abbia un seguito, ma credo dipenda dal successo di vendite che riscontrerà, visto che esce per Soulseller che non è una label di quarta fascia che si accontenta di vendite con percentuali da prefisso telefonico. Onore comunque a loro per aver creduto in un progetto così retrò eppure, fatemelo dire, ancora fresco e attuale e credibile al pari di molti altri oramai più blasonati, non foss’altro per questioni di anagrafe. Se rimanesse un episodio a sé stante, isolato e irreplicato, sarebbe davvero un peccato. Se questo tipo di black metal lo suonassero anche tra cento anni avrebbe sempre e comunque qualcosa di mirabolante da proporre. Riesumo un’esortazione molto vintage all’uopo: buy or die! (Griffar)

