Avere vent’anni: MONSTER MAGNET – Monolithic Baby!
Premessa obbligatoria: i Monster Magnet sono il mio gruppo preferito. Seconda premessa: “gruppo preferito” è una locuzione che, in contrasto con il suo stretto significato grammaticale, indica in effetti un molteplicità di nomi più che uno solo in particolare. Terza premessa: anche alla luce di quanto fatto negli anni a venire credo che Dave Wyndorf faccia parte di quella schiera di autori per i quali non sia realmente possibile scrivere un disco sbagliato: si tratta di mestiere, di saper maneggiare la formula e del fatto che l’ispirazione non sembra mai realmente abbandonarlo del tutto. Insomma anche nei momenti meno brillanti è sempre capace di tirar fuori qualche colpo da campione, perché di un campione a tutti gli effetti si tratta. Tutte queste premesse per dire che i segni che accompagnarono l’uscita di Monolithic Baby! non furono dei migliori e potevano far pensare a una band che aveva già intrapreso la china discendente. Dopotutto i Monster Magnet non avevano saputo capitalizzare il successo (presumo inaspettato) di Powertrip, e il successivo God Says No, pur senza essere brutto, era di sicuro il loro album meno memorabile. Poi abbiamo tempi dilatati fra un’uscita e la successiva, il passaggio a una etichetta più piccola e l’abbandono di una parte dei componenti storici (tutta la sezione ritmica). Alla fine tutte cose normali che fanno parte del tipico ciclo di vita di un qualsiasi gruppo. Quindi sì, si tratta di una band che a tutti gli effetti stava vivendo una fase di fisiologico declino e, se non fosse stato per lo straordinario concerto al compianto Horus Club, forse Monolithic Baby! forse neanche mi sarei degnato di ascoltarlo. E sarebbe stato un errore, perché, senza starci a girare troppo intorno, Monolithic Baby! è un mezzo discone. Uno di quelli che riascolto più spesso e che oggi a distanza di ben venti anni continua a darmi parecchia soddisfazione.
È un album dal testosterone esagerato, un lavoro in cui i tipici viaggi interstellari trovano un contrappunto nelle polluzioni notturne e quello in cui la componente animalesca e stoogesiana, evocata a sproposito all’epoca di Powertrip, sembra qui invece concretizzarsi realmente. La clamorosa Slut Machine e in genere i primi quattro pezzi votati al culto dei mignottoni lo spiegano in maniera piuttosto esplicita. Certo, Unbroken (Hotel Baby) all’epoca mi sembrò una cafonata eccessiva e probabilmente lo è, ma insomma si tratta di rock and roll che inneggia a scopare, non di un trattato di filosofia kantiana.
Sfogati i bassi istinti, Wyndorf e la band sembrano ritornare nelle lande cosmiche a loro più note e piazzano al centro un uno-due di quelli che solo i fuoriclasse sanno tirare fuori. La faccio semplice: Radiation Day e Monolithic per me non dovrebbero mai mancare in una loro setlist. Poi, come si diceva, subentra anche il mestiere, il sapere andare a ripescare da altri, con cover che scavano nel profondo delle origini del loro suono (nello specifico dai dischi solisti di Calvert e Gilmour). Nel mezzo ci sono un paio di brani un po’ più innocui (in realtà forse la sola Too Bad sarebbe da sacrificare, ma immagino sia stata inserita come rimando agli innesti acustici della doppietta aurea Superjudge / Dopes To Infinity). Il finale a sorpresa regala l’ennesima zampata, con due pezzi che riportano tutto al doom distopico spaziale, punto da dove inizia la loro storia e che, nonostante tutte le evoluzioni, ne continua a rappresentare il centro. Non un semplice colpo di coda, ma un album sintetico che fa da piccolo compendio di uno dei gruppi migliori del mondo, bombetta. (Stefano Greco)
