Avere vent’anni: AEBA – Shemhamforash. Des Hasses Antlitz

Proprio come in tempi più recenti sono venuti fuori i meme tipo “tutti odiano i Nickelback” oppure “i Six Feet Under sono la peggior death metal band di sempre”, in passato questa sorte toccò alla label tedesca Last Episode. Avevano una politica piuttosto aggressiva a livello di marketing e alluvionavano le redazioni di promo che non venivano quasi mai ascoltati per intero, era già tanto se si arrivava al secondo brano per scriverne stroncature senza possibilità di recupero, aprioristiche e molto sovente del tutto immeritate. Date un’occhiata al loro roster, cito solo qualche esempio perché a scriverli tutti ci metterei una paginata: Andras, Atanatos, i primi (fenomenali) tre Belphegor, Black Messiah, Dawn of Dreams, gli istrionici ed originalissimi Eisregen, Eminenz, Dies Ater, Vilkates… ok, non tutta la loro produzione è stata da dieci e lode ma quello succede anche alla Moonfog, giusto per tirare in ballo un’etichetta che più di culto non si può.

Pure gli Aeba, certo, che per loro hanno inciso i primi tre album, il primo dei quali la prima stampa ufficiale del demo Im Schattenreich… che resta un gran bel pezzo di disco anche a distanza di 27 anni. Ma gli Aeba non erano dei cialtroni qualunque aggregatisi alla rinfusa solo per fare un po’ di cagnara pitturandosi come dei panda, erano dei signori strumentisti e compositori che, all’epoca di questo quarto album del quale si celebra il ventesimo compleanno oggi, avevano già alle spalle 12 anni di carriera (i primi due usando il moniker Eternal Suffer, che fu cambiato in Aeba – acronimo delle iniziali dei quattro arcidemoni Astaroth, Eurynome, Bael e Amduscias – nel lontano 1994) e tre dischi tutti più che apprezzabili e di alto livello. Naturalmente tutti stroncati per principio da recensori che di black metal o non ne capivano un accidente oppure palesavano lacune anche gravi che non avevano alcuna intenzione di colmare ascoltando qualcosa di diverso da Satyricon, DarkThrone, Immortal o Marduk. Non so/non  mi ricordo se fu a causa di queste continue indebite e pretestuose stroncature che gli Aeba migrarono per la pubblicazione di Shemhamforash – Des Hasses Antlitz sull’etichetta ancora più underground Twilight (all’epoca Twilight Vertrieb, casa di Endstille e Koldbrann tra gli innumerevoli altri), ottenendo finalmente riscontri più consoni. Bastò togliersi un po’ di paraocchi. Come si dice, quando la barca affonda anche i topi l’abbandonano, e la Last Episode stava cominciando ad andare alla deriva; troppo negativa la nomea dei suoi dischi, circolavano voci di truffe (secondo me si confondevano con il tipo della Invasion, ma sbeffeggiare la Last Episode era uno sport in voga come il tiro allo scoiattolo a casa Benton) sebbene io possa garantirvi di aver acquistato per corrispondenza più volte – ordini anche di cifre non insignificanti – presso di loro e non aver mai perso un solo centesimo, cosa che non è successa con la No Colours per esempio.

Di questa deriva beneficiarono gli Aeba, che come detto si accasarono altrove e pubblicarono quello che con tutta probabilità è il loro apice creativo. Non che gli altri cinque dischi siano da buttare, nemmeno per sogno. Già l’ho detto. Ma Shemhamforash – Des Hasses Antlitz ha un’altra marcia. È caustico quando serve, velocissimo, furioso e frenetico come raw black metal insegna e contemporaneamente sa essere melodico, sognante, tenue, oscuro, fosco, cinereo. Stuzzicanti melodie deliziano i timpani, siano esse tumultuose come una bufera oppure delicatamente armoniche disegnate su tempi di metronomo meno irruenti. Il livello è tutto tendente all’altissimo, ciò merito anche del minutaggio: i pezzi non eccedono mai in lunghezze esasperanti o inutili prolissità, sono comunque tutti (intro ed intermezzo esclusi) compresi nel range 6 minuti netti-7 minuti e mezzo. All’interno di ognuno di essi c’è dunque spazio per inserire idee, soluzioni, varianti, cambi di tempo improvvisi, parti arpeggiate, stacchi rallentati… Tutto quanto serve per coinvolgere e conquistare l’ascoltatore. Il disco è registrato in modo eccellente e gli strumenti sono mirabilmente bilanciati: logicamente prevalgono gli intrecci tra le due chitarre, ma hanno il giusto spazio anche le tastiere, riempitive e mai eccessivamente ridondanti; la batteria non è sepolta in un oscuro altroquando, conferendo quindi grinta e uno spiccato senso del ritmo; il basso è ben presente e la voce, un po’ in screaming stile Dani Filth un po’ più digrignata sul modello Satyr fino ad arrivare in qualche caso al growl, non soverchia la musica né si nasconde nelle retrovie. La parte centrale dell’album, con The Angel of GenocideAs Wolf Among SheepsStorm of Vengeance, è da manuale del black metal; tuttavia questo non mitiga la squisitezza di brani come Where no Light is o la conclusiva Hate is not Enough; filler non ce ne sono, probabilmente se il disco lo ascoltassero otto persone diverse ognuna avrebbe un suo brano preferito. Il mio invito è recuperare al più presto questo sontuoso disco e a cascata tutta la produzione dei bravissimi tedeschi, ingiustamente sottovalutati (quante volte ho dovuto scrivere questa frase) pure non per colpa o demeriti loro. La band cessò di esistere nel 2013, circa un anno dopo l’uscita dell’ultimo (e più tecnico) album Nemesis – Decay of God’s Grandeur. (Griffar)

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