Ritorno al crepuscolo: NECROPHOBIC – In the Twilight Grey

Nel 2013 Womb of Lilithu mise i Necrophobic di fronte a un bivio. Proseguire l’evoluzione verso un black metal dai toni moderni ed esoterici o mantenere i piedi in due scarpe e non tagliare del tutto il cordone ombelicale con il passato? Il dilemma si risolse, in parte, da solo quando una storiaccia di violenza domestica costrinse il cantante Tobias Sidegård a lasciare il gruppo, propiziando il ritorno dietro il microfono di Anders Strokirk, che aveva abbandonato dopo il debutto The Nocturnal Silence. Il batterista Joakim Sterner, che era rimasto l’unico membro originale superstite, defenestrò quindi anche Fredrik Folkare degli Unleashed, entrato pochi anni prima, e richiamò la vecchia coppia d’asce composta da Johan Bergebäck e Sebastian Ramstedt, che riprese in mano il timone compositivo assolvendo al compito che gli era stato affidato in modo implicito da Sterner nelle dichiarazioni successive alla rimpatriata: ricondurre lo stile della band sui classici binari di quel peculiare ibrido tra death e black svedese di cui i Necrophobic furono tra i principali interpreti insieme a formazioni meno fortunate come Unanimated e Sacramentum. Il risultato, Mark of the Necrogram, fu una (tsar) bomba. Il successivo Dawn of the Damned, pubblicato due anni dopo, nel 2020, non poté godere dell’identico effetto sorpresa nel vedere un nome storico (non di primissimo piano ma pur sempre storico) tornare all’antico in forma smagliante ma era comunque un bel sentire. Con questo In the Twilight Grey, spiace dirlo, il gioco inizia a mostrare un pochino la corda.

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Il disco è buono, a tratti eccellente, intendiamoci. E la mia accoglienza iniziale era stata addirittura entusiastica, per via dell’amore sconfinato che nutro per queste sonorità. Che manchino la freschezza e l’aggressività degli episodi migliori di Mark of the Necrogram, che aveva visto il rientro in contemporanea di tre ex membri, è fisiologico. Ed è apprezzabile lo sforzo di cercare un minimo di variazioni in una formula che si è voluto tornasse incontaminata. Il difetto di In the Twilight Grey è che questo lodevole intento si è tradotto in un album troppo prolisso, quasi 64 minuti nella versione estesa, contenente una cover abbastanza inutile di The Torture Never Stops.

L’idea è calcare la mano sul lato più cupo e notturno del suono dei Necrophobic, il che, quando funziona, funziona benissimo. Ma non funziona sempre. Ed è un peccato perché la mancanza di sintesi è davvero l’unico vero tallone d’Achille di un lavoro, ripetiamo, buono che, con una durata più adeguata, avrebbe potuto essere ottimo. I brani più efficaci, inoltre, sono ancora una volta quelli più semplici e diretti, con il ritornello memorabile e il riff da scapoccio. Clavis Inferni, il singolo Stormcrow, As Stars Collide, basata su uno di quei giri di due note in croce che colpiscono per quanto siano elementari ed efficaci allo stesso tempo (qualche reminiscenza del thrash tedesco c’è sempre). La parte centrale del disco, dove prevalgono tempi più lenti e atmosfere più meste, segna invece un sensibile, per quanto non drammatico, calo di tensione. Shadows of the Brightest Night vorrebbe evocare un afflato epico e in parte ci riesce pure ma si arriva con un certo fiatone alla fine dei suoi sette minuti e mezzo. L’ancora più lunga title-track, posta in chiusura, offre più idee e dinamica ma giunge anche dopo una sequela di brani dall’ispirazione non proprio stellare. Ci sta, parliamo di veterani al decimo Lp incardinati in un genere che non consente chissà quali variazioni sul tema e sto evidentemente facendo la parte del fan brontolone perché abituato troppo bene. Se vi piacciono i Necrophobic, è comunque assai difficile che In the Twilight Grey vi lasci indifferenti. (Ciccio Russo)

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